sabato 3 novembre 2018

L'INSABBIAMENTO CULTURALE DELLA "QUESTIONE MERIDIONALE



L'INSABBIAMENTO CULTURALE DELLA "QUESTIONE MERIDIONALE
controstoria

di CARLO COPPOLA 


Molti storici in epoca moderna hanno fatto luce sugli eventi che hanno caratterizzato l'unità d'Italia dimostrando, con certezza, che la cultura di "regime" stese, dai primi anni dell'unità, un velo pietoso sulle vicende "risorgimentali" e sul loro reale evolversi.

Tutte le forme d'influenza sulla pubblica opinione furono messe in opera, per impedire che la sconfitta dei Borboni o la rivolta del popolo meridionale si colorasse di toni positivi.

Si cercò di rendere patetica e ridicola la figura di Francesco II - il "Franceschiello" della vulgata – arrivando alla volgarità di far fare dei fotomontaggi della Regina Maria Sofia in pose pornografiche, che furono spediti a tutti i governi d'Europa e a Francesco II stesso, il quale, figlio di una "santa" e allevato dai preti, con ogni probabilità non aveva mai visto sua moglie nuda nemmeno dal vivo. Risultò, in seguito, che i fotomontaggi erano stati eseguiti da una coppia di fotografi di dubbia fama, tali Diotallevi, che confessarono di aver agito su commissione del Comitato Nazionale; la vicenda suscitò scalpore e, benché falsa, servì allo scopo di incrinare la reputazione dei due sovrani in esilio.

La memoria di Re Ferdinando II, padre di Francesco, fu infangata da accuse di brutalità e ferocia: gli fu scritto dal Gladstone – interessatamente - d'essere stato - lui cattolicissimo - "la negazione di Dio".

Soprattutto si minimizzò l'entità della ribellione che infiammava tutto il l'ex Regno di Napoli, riducendolo a "volgare brigantaggio", come si legge nei giornali dell'epoca (giornali, peraltro, pubblicati solo al nord in quanto la libertà di stampa fu abolita al sud fino al 31 dicembre 1865); nasce così la leggenda risorgimentale della "cattiveria" dei Borboni contrapposta alla "bontà" dei piemontesi e dei Savoia che riempirà le pagine dei libri scolastici.

Restano a chiarire le motivazioni che hanno indotto gli ambienti accademici del Regno d'Italia prima, del periodo fascista e della Repubblica poi, a mantenere fin quasi ai giorni nostri, una versione dei fatti così lontana dalla verità.

A mio parere le ragioni sono composite, ma riconducibili ad un concetto che il D'Azeglio enunciò nel secolo scorso "Abbiamo fatto l'Italia, adesso bisogna fare gli Italiani", e possono essere esemplificate nel seguente modo:

a. Il mondo della cultura post-unitaria si adoperò per sradicare dalla coscienza e dalla memoria di quelle popolazioni che dovevano diventare italiane, il modo piratesco e cruentisissimo con il quale l'unità si ottenne, ammantando di leggende "l'eroico" operato dei Garibaldini (che sarebbero stati, nonostante tutto, schiacciati prima o poi dall'esercito borbonico), sminuendo il fatto che la reale conquista del meridione fu ottenuta, in realtà, dall'esercito piemontese, attraverso le vicende della guerra civile - nonostante la formale annessione al Regno di Piemonte - e tacendo, soprattutto, la circostanza che le popolazioni del sud, salvo una minoranza di latifondisti ed intellettuali, non avevano nessuna voglia di essere "liberate" e anzi reagirono violentemente contro coloro i quali, a ragione, erano considerati invasori.
Per contro si diede della deposta monarchia borbone un'immagine traviata e distorta, e del '700 e '800 napoletano la visione, bugiarda, di un periodo sinistro d'oppressione e miseria dal quale le genti del sud si emanciperanno, finalmente, con l'unità, liberate dai garibaldini e dai piemontesi dalla schiavitù dello "straniero".

b. Il Ministero della Pubblica Istruzione e della cultura popolare del periodo fascista, proteso com'era al perseguimento di valori nazionalistici e legato a filo doppio alla dinastia Savoia, non ebbe, per ovvi motivi, nessuna voglia di tipo "revisionista", riconducendo anzi l'origine della nazione al periodo romano e saltando a piè pari un millennio di storia meridionale. Il governo fascista ebbe l'indiscutibile merito di cercare di innescare un meccanismo di recupero economico della realtà meridionale, ma da un punto di vista storico insabbiò ancor di più la questione meridionale, ritenendola inutile e dannosa nell'impianto culturale del regime.

c. La Repubblica Italiana, nel dopoguerra, mantenne intatto, in sostanza, l'impianto di pubblica istruzione del periodo fascista.

La nazione emergeva, non bisogna dimenticarlo, da una guerra civile, nella quale le fazioni in lotta avevano, con la Repubblica di Salò, diviso in due l'Italia, il movimento indipendentista siciliano era in piena agitazione (erano gli anni delle imprese di Salvatore Giuliano), non era certamente il momento di sollevare dubbi sulla veridicità della storia risorgimentale e alimentare così tesi separatiste.

Si è arrivati in questo modo ai giorni nostri, dove ancora adesso, in molti libri scolastici, la storia d'Italia e del meridione in particolare è vergognosamente mistificata.

In campo economico la visione che si dette del Regno delle due Sicilie fu, se possibile, ancora più lontana dalla realtà effettuale.

Il Sud borbonico, come ci riporta Nicola Zitara era: "Un paese strutturato economicamente sulle sue dimensioni. Essendo, a quel tempo, gli scambi con l'estero facilitati dal fatto che nel settore delle produzioni mediterranee il paese meridionale era il piú avanzato al mondo, saggiamente i Borbone avevano scelto di trarre tutto il profitto possibile dai doni elargiti dalla natura e di proteggere la manifattura dalla concorrenza straniera. Il consistente surplus della bilancia commerciale permetteva il finanziamento d'industrie, le quali, erano sufficientemente grandi e diffuse, sebbene ancora non perfette e con una capacità di proiettarsi sul mercato internazionale limitata, come, d'altra parte, tutta l'industria italiana del tempo (e dei successivi cento anni). (...) Il Paese era pago di sé, alieno da ogni forma di espansionismo territoriale e coloniale. La sua evoluzione economica era lenta, ma sicura. Chi reggeva lo Stato era contrario alle scommesse politiche e preferiva misurare la crescita in relazione all'occupazione delle classi popolari. Nel sistema napoletano, la borghesia degli affari non era la classe egemone, a cui gli interessi generali erano ottusamente sacrificati, come nel Regno sardo, ma era una classe al servizio dell'economia nazionale".

In realtà il problema centrale dell'intera vicenda è che nel 1860 l'Italia si fece, ma si fece malissimo. Al di là delle orribili stragi che l'unità apportò, le genti del Sud patiscono ancora ed in maniera evidentissima i guasti di un processo di unificazione politica dell'Italia che fu attuato senza tenere in minimo conto le diversità, le esigenze economiche e le aspirazioni delle popolazioni che venivano aggregate.

La formula del "piemontismo", vale a dire della mera e pedissequa estensione degli ordinamenti giuridici ed economici del Regno di Piemonte all'intero territorio italiano, che fu adottata dal governo, e i provvedimenti "rapina" che si fecero ai danni dell'erario del Regno di Napoli, determinarono un'immediata e disastrosa crisi del sistema sociale ed economico nei territori dell'ex Regno di Napoli e il suo irreversibile collasso.

D'altronde le motivazioni politiche che avevano portato all'unità erano – come sempre accade – in subordine rispetto a quelle economiche.

Se si parte dall'assunto, ampiamente dimostrato, che lo stato finanziario del meridione era ben solido nel 1860, si comprendono meglio i meccanismi che hanno innescato la sua rovina.

Nel quadro della politica liberista impostata da Cavour, il paese meridionale, con i suoi quasi nove milioni di abitanti, con il suo notevole risparmio, con le sue entrate in valuta estera, appariva un boccone prelibato.

L'abnorme debito pubblico dello stato piemontese procurato dalla politica bellicosa ed espansionista del Cavour (tre guerre in dieci anni!) doveva essere risanato e la bramosia della classe borghese piemontese per la quale le guerre si erano fatte (e alla quale il Cavour stesso apparteneva a pieno titolo) doveva essere, in qualche modo, soddisfatta.

Descrivere vicende economiche e legate al mondo delle banche e della finanza, può risultare al lettore, me ne rendo conto, noioso, ma non è possibile comprendere alcune vicende se ne conoscono le intime implicazioni.

Lo stato sabaudo si era dotato di un sistema monetario che prevedeva l'emissione di carta moneta mentre il sistema borbonico emetteva solo monete d'oro e d'argento insieme alle cosiddette "fedi di credito" e alle "polizze notate" alle quali però corrispondeva l'esatto controvalore in oro versato nelle casse del Banco delle Due Sicilie.

Il problema piemontese consisteva nel mancato rispetto della "convertibilità" della propria moneta, vale a dire che per ogni lira di carta piemontese non corrispondeva un equivalente valore in oro versato presso l'istituto bancario emittente, ciò dovuto alla folle politica di spesa per gli armamenti dello stato.

In parole povere la valuta piemontese era carta straccia, mentre quella napolitana era solidissima e convertibile per sua propria natura (una moneta borbonica doveva il suo valore a se stessa in quanto la quantità d'oro o d'argento in essa contenuta aveva valore pressoché uguale a quello nominale).

Quindi cita ancora lo Zitara: "Senza il saccheggio del risparmio storico del paese borbonico, l'Italia sabauda non avrebbe avuto un avvenire. Sulla stessa risorsa faceva assegnamento la Banca Nazionale degli Stati Sardi. La montagna di denaro circolante al Sud avrebbe fornito cinquecento milioni di monete d'oro e d'argento, una massa imponente da destinare a riserva, su cui la banca d'emissione sarda - che in quel momento ne aveva soltanto per cento milioni - avrebbe potuto costruire un castello di cartamoneta bancaria alto tre miliardi. Come il Diavolo, Bombrini, Bastogi e Balduino (titolari e fondatori della banca, che sarebbe poi divenuta Banca d'Italia) non tessevano e non filavano, eppure avevano messo su bottega per vendere lana. Insomma, per i piemontesi, il saccheggio del Sud era l'unica risposta a portata di mano, per tentare di superare i guai in cui s'erano messi".

A seguito dell'occupazione piemontese fu immediatamente impedito al Banco delle Due Sicilie (diviso poi in Banco di Napoli e Banco di Sicilia) di rastrellare dal mercato le proprie monete per trasformarle in carta moneta così come previsto dall'ordinamento piemontese, poiché in tal modo i banchi avrebbero potuto emettere carta moneta per un valore di 1200 milioni e avrebbero potuto controllare tutto il mercato finanziario italiano (benché ai due banchi fu consentito di emettere carta moneta ancora per qualche anno). Quell'oro, invece, attraverso apposite manovre passò nelle casse piemontesi.

Tuttavia nella riserva della nuova Banca d'Italia, non risultò esserci tutto l'oro incamerato (si vedano a proposito gli Atti Parlamentari dell'epoca).

Evidentemente parte di questo aveva preso altre vie, che per la maggior parte furono quelle della costituzione e finanziamento di imprese al nord operato da nuove banche del nord che avrebbero investito al nord, ma con gli enormi capitali rastrellati al sud.

Ancora adesso, a ben vedere, il sistema creditizio del meridione risente dell'impostazione che allora si diede. Gli istituti di credito adottano ancora oggi politiche ben diverse fra il nord ed il sud, effettuando la raccolta del risparmio nel meridione e gli investimenti nel settentrione.

Il colpo di grazia all'economia del sud fu dato sommando il debito pubblico piemontese, enorme nel 1859 (lo stato più indebitato d'Europa), all'irrilevante debito pubblico del Regno delle due Sicilie, dotato di un sistema di finanza pubblica che forse rigidamente poco investiva, ma che pochissimo prelevava dalle tasche dei propri sudditi. Il risultato fu che le popolazioni e le imprese del Sud, dovettero sopportare una pressione fiscale enorme, sia per pagare i debiti contratti dal governo Savoia nel periodo preunitario (anche quelli per comprare quei cannoni a canna rigata che permisero la vittoria sull'esercito borbonico), sia i debiti che il governo italiano contrarrà a seguire: esso in una folle corsa all''armamento, caratterizzato da scandali e corruzione, diventò, con i suoi titoli di stato, lo zimbello delle piazze economiche d'Europa.

Scrive ancora lo storico Zitara: "La retorica unitaria, che coprì interessi particolari, non deve trarre in inganno. Le scelte innovative adottate da Cavour, quando furono imposte all'intera Italia, si erano già rivelate fallimentari in Piemonte. A voler insistere su quella strada fu il cinismo politico di Cavour e dei suoi successori, l'uno e gli altri più uomini di banca che veri patrioti. Una modificazione di rotta sarebbe equivalsa a un'autosconfessione. Quando, alle fine, quelle "innovazioni", vennero imposte anche al Sud, ebbero la funzione di un cappio al collo.

Bastò qualche mese perché le articolazioni manifatturiere del paese, che non avevano bisogno di ulteriori allargamenti di mercato per ben funzionare, venissero soffocate.

L'agricoltura, che alimentava il commercio estero, una volta liberata dei vincoli che i Borbone imponevano all'esportazione delle derrate di largo consumo popolare, registrò una crescita smodata e incontrollabile e ci vollero ben venti anni perché i governi sabaudi arrivassero a prostrarla. Da subito, lo Stato unitario fu il peggior nemico che il Sud avesse mai avuto; peggio degli angioini, degli aragonesi, degli spagnoli, degli austriaci, dei francesi, sia i rivoluzionari che gli imperiali".

Per contro una politica di sviluppo, fra mille errori e disastri economici epocali (basti pensare al fallimento della Banca Romana, principale finanziatrice dello stato unitario o allo scandalo Bastogi per l'assegnazione delle commesse ferroviarie), fu attuata solo al Nord mentre il Sud finì per pagare sia le spese della guerra d'annessione, sia i costi divenuti astronomici dell'ammodernamento del settentrione.

Il governo di Torino adottò nei confronti dell'ex Regno di Napoli una politica di mero sfruttamento di tipo "colonialista" tanto da far esclamare al deputato Francesco Noto nella seduta parlamentare del 20 novembre 1861: "Questa è invasione non unione, non annessione! Questo è voler sfruttare la nostra terra come conquista. Il governo di Piemonte vuol trattare le province meridionali come il Cortez ed il Pizarro facevano nel Perú e nel Messico, come gli inglesi nel regno del Bengala".

La politica dissennatamente liberistica del governo unitario portò, peraltro, la neonata e debolissima economia dell'Italia unita a un crack finanziario.

Le grandi società d'affari francesi ed inglesi fecero invece, attraverso i loro mediatori piemontesi, affari d'oro.

Nel 1866, nonostante il considerevole apporto aureo delle banche del sud, la moneta italiana fu costretta al "corso forzoso" cioè fu considerata dalle piazze finanziarie inconvertibile in oro. Segno inequivocabile di uno stato delle finanze disastroso e di un'inflazione stellare. I titoli di stato italiani arrivarono a valere due terzi del valore nominale, quando quelli emessi dal governo borbonico avevano un rendimento medio del 18%.

Ci vorranno molti decenni perché l'Italia postunitaria, dal punto di vista economico, possa riconquistare una qualche credibilità.

L'odierna arretratezza economica del Meridione è figlia di quelle scelte scellerate e di almeno un cinquantennio di politica economica dissennata e assolutamente dimentica dell'ex Regno di Napoli da parte dello stato unitario.

Si dovrà aspettare il periodo fascista per vedere intrapresa una qualche politica di sviluppo del Meridione con un intervento strutturale sul suo territorio attraverso la costruzione di strade, scuole, acquedotti (quello pugliese su tutti), distillerie ed opifici, la ripresa di una politica di bonifica dei fondi agricoli, il completamento di alcune linee ferroviarie come la Foggia-Capo di Leuca, - iniziata da Ferdinando II di Borbone, dimenticata dai governi sabaudi e finalmente terminata da quello fascista.

Ma il danni e i disastri erano già fatti: una vera economia nel sud non esisteva più e le sue forze più giovani e migliori erano emigrate all'estero.

Nonostante gli interventi negli anni '50 del XX secolo con il piano Marshall (peraltro con nuove sperequazioni tra nord e sud), '60 e '70 con la Cassa per il Mezzogiorno e l'aiuto economico dell'Unione Europea ai giorni nostri, il divario che separa il Sud dal resto d'Italia è ancora notevole.

La popolazione dell'ex Regno di Napoli, falcidiata dagli eccidi del periodo del "brigantaggio", stremata da anni di guerra, di devastazioni e nefandezze d'ogni genere, per sopravvivere, darà vita alla grandiosa emigrazione transoceanica degli ultimi decenni dell''800, che continuerà, con una breve inversione di tendenza nel periodo fascista e una diversificazione delle mete che diventeranno il Belgio, la Germania, la Svizzera, fin quasi ai giorni nostri.

Il Sud pagherà, ancora una volta, con il flusso finanziario generato dal lavoro e dal sacrificio degli emigranti meridionali, lo sviluppo dell'Italia industriale.

Ritengo, in conclusione, che sia un diritto delle gente meridionale riappropriarsi di quel pezzo di storia patria che dopo il 1860 le fu strappato e un dovere del corpo insegnanti dello stato favorire un'analisi storica più oggettiva di quei fatti che tanto peso hanno avuto ed hanno ancora nello sviluppo sociale del Paese, anche attraverso una scelta dei testi scolastici più oculata ed imparziale.

La guerra fra il nord ed il sud d'Italia non si combatte più sui campi di battaglia del Volturno, del Garigliano, sugli spalti di Gaeta o nelle campagne infestate dai "briganti", ma non per questo è meno viva; continua ancora oggi sul terreno di una cultura storica retriva e bugiarda che, alimentando una visione del sud "geneticamente" arretrato, produce un'ulteriore frattura tra due "etnie" che non si sono amate mai.

Il dibattito ancora aperto e vivace sull'ipotesi di una Italia federalista, i toni accesi del Partito della Lega Nord, una certa avversione, subdola ma reale, tra la gente del nord e quella del sud, nonostante il "rimescolamento" dovuto all'emigrazione interna, testimoniano quanto queste problematiche, nate nel 1860, siano ancora attualissime.

Oggi l'unità dello stato, in un periodo dove il progresso passa attraverso enti politico-economici sopranazionali come la Comunità Europea, è certamente un valore da salvaguardare, ma al meridione è dovuta una politica ed una attenzione particolari, una politica legata ai suoi effettivi interessi, che valorizzi le sue enormi risorse e assecondi le sue vocazioni, a parziale indennizzo dei disastri e delle ingiustizie che l'unità vi ha apportato.

L'enorme numero di morti che costò l'annessione, i 23 milioni di emigrati dal meridione dell'ultimo secolo, che hanno sommamente contribuito, a costo di immani sforzi, alla realizzazione di un'Italia moderna e vivibile, meritano quel concreto riconoscimento e quel rispetto che per 140 anni lo Stato, attraverso una cultura storica mendace, gli ha negato e che oggi gli eredi della Nazione Napoletana reclamano
.

di CARLO COPPOLA
"Controstoria dell'Unità d'Italia"
M.C.E. Editore

Fonte: cronologia.leonardo.it

venerdì 2 novembre 2018

Passa il carrozzone Presidenziale in terra arbëreshe: pronti a saltarvi sopra? No, grazie: resto a piedi !

Foto Alessandro Rennis




          

 di Alessandro Rennis







Attenti al sette di novembre p.v.: arrivano a S. Demetrio Corone il Presidente italiano Sergio Mattarella e quello albanese Ilir Meta; ma per gli arbëresh, richiamati a festa per i 550 anni dalla morte di G.K.Skanderbeg, non si annuncia un bel  “ sol dell’avvenir “ in cui , stando a quanto vado leggendo in questi giorni di vigilia, sono in molti a sperare . Certo, non si tratta dell’incontro di Garibaldi e Vittorio Emanuele II, avvenuto – come recita la storiella post Mille – a Teano (??? , forse !), con i protagonisti che , in una zoppicante lingua francese, si sono accordati per depredare il Sud, ma in quanto a falsi storici ci siamo vicini. E parto da S. Demetrio, come ieri da Teano ! Premetto che non avrei nulla da obiettare sulla scelta del luogo di tale incontro, proprio per la luminosa storia scritta  dentro e fuori  le mura del Collegio di S.Adriano e del Comune di S. Demetrio Corone. Ma una riflessione sull’evento mi è doveroso avanzarla. Se la scelta di tale sede è motivata con quanto ha rappresentato il Collegio di S.Adriano, oggi  in S. Demetrio,  ma già ex Collegio Corsini -  trafugato nel tempo a S. Benedetto Ullano  attraverso varie operazioni di dubbia legittimità -  perché  nella circostanza non si è privilegiato questo Comune , testimoniando, almeno una volta, onesta volontà di parziale ricomposizione della verità storica ? E chiedo, ancora, ai vari esponenti del Governo centrale, di quello Regionale, di quello Provinciale , ai vari  amici di cordata… “mariniana”…., che  hanno messo in piedi la prossima parata storica,  come mai è stata scavalcata l’istituzione centenaria diocesana di Lungro ,  nella figura del suo Eparca, dei suoi papàdes , dei fedeli arbëresh di rito greco/bizantino ? Per chi non lo sapesse, è stata riservata una sola parentesi  : una visita “PRIVATA” del Presidente Ilir Meta , a Lungro, presso il palazzo vescovile, all’Eparca Donato Oliverio: e ciò  soltanto alla vigilia dell’incontro ufficiale, al quale il Vescovo resta come invitato (…di lusso?). Di certo, nella circostanza, si magnificherà la figura di Skanderbeg come  “defensor fidei”, come colui che ci ha sottratto all’oppressione musulmana e , forse, qualcuno lo ricorderà come destinato a guidare perfino una Crociata anti ottomana; ed allora perché , nella circostanza, viene scavalcata la Diocesi e la sua sede centenaria, dove fede, rito, lingua arbëreshe hanno maturato storica continuità? Forse non è vero che  se oggi nei nostri paesi ancora sopravvive  la lingua arbëreshe, se sopravvivono alcune tradizioni – seppure ridimensionate, per ovvi motivi che in questa sede non vado a dipanare -, se  il popolo ricorda ancora in madrelingua  preghiere e canti paraliturgici ecc…, lo si deve alla tenace difesa dell’arbëresh da parte dei nostri papàdes? A conferma di ciò, sta il fatto che nei paesi ex arbëresh non rientranti nella giurisdizione della Diocesi di Lungro e dove, pertanto,  non hanno operato i papàdes di rito greco/bizantino, nel volger di pochi decenni si è perso l’uso dell’arbëresh. Ed all’insegnamento della lingua arbëreshe nella scuola dell’obbligo; in barba alla necessità di avviare corsi, corsetti e….corsette verso finanziamenti a sostegno di progetti scuola ecc…ecc , come si vorrebbe ancora poidomani chiedere ai due Presidenti. In quale scuola dell’obbligo hanno imparato a scrivere l’arbëresh e a promuoverne l’uso i vari papàs Sepa Ferrari, i Solano, i Giordano,  i Bellizzi, i Bellusci, gli Alessandrini,  i Selvaggi, i Fortino, i Matrangolo, i Capparelli, i Faraco ( ma di quanti altri mi dimentico…!) e i tanti che ne hanno idealmente seguito l’esempio, come i Peppino Roma,  i Demetrio Emanuele, i V. Bruno, i Nando Elmo, gli Italo Elmo,  i F.Marchianò, Attilio e Vincenzino Vaccaro ecc…ecc…(  quanti mi sfuggono al momento!!!….chiudo l’elenco per non stancare !) ?  Alzi la mano chi sappia dirmi quale lingua mai sia stata strappata all’oblio per effetto di una legge, di un decreto, di un articolo di questa o quella Costituzione, che ne abbiano convintamente sposato la  necessità di salvaguardia! Ma poi, ( problema ancor più grave !),  a quali scolari e studenti si vorrebbe insegnare l’arbëresh ? I nostri paesi si svuotano inesorabilmente di anno in anno; le poche nuove famiglie e loro figli non ne vogliono sapere di albanesità che comporti dilatazione di orario scolastico. E allora ai Presidenti, al Presidente Mattarella in particolare, se proprio si voglia chiedere qualcosa , sarebbe opportuno ricordare loro che sollecitino i Governi ad avviare concrete iniziative economiche mirate a mantenere in piedi i nostri paesi , con lo scopo primario di trattenere nei luoghi di nascita le nuove generazioni; e saremo vivi fino a quando si sapranno avviare sul posto attività lavorative ( promozione del turismo, recettività alberghiera, conserve di prodotti locali, industria olearia ecc..) alternative  ai vecchi mestieri,  tramontati  per drastica legge economica; saremo vivi fino a quando a tutti gli arbëresh,  pur lavorando fuori, risulterà vantaggioso, sia economicamente sia  sotto il profilo sociale ed affettivo, rientrare per abitare nei rispettivi paesi d’origine: altro che lezioni di lingua arbëreshe !
Temo , invece, che la incensata occasione di incontro dei due Presidenti si risolverà in una magnificata esaltazione del tema dell’emigrazione e dell’accoglienza e sento già il Mattarella che scivolerà a paragonare l’arrivo in terra italica  di noi arbëresh a quello variegato dei nostri giorni: argomento di cui , in questa sede, non voglio discutere.  Ma non  si farà memoria di quali sofferenze, di quante umiliazioni  furono vittime gli albanesi , una volta giunti in terra italica ! Poiché ritenuti tutti ladri e , in quanto tali, da costringere a vivere in piccoli agglomerati  recintati da adeguate muraglie, non potevano uscire e rientrare liberamente, ma ad orario, senza armi, in cavalcature ( per chi ne disponeva!) senza sella e tutti sotto rigoroso controllo.  Mi si dirà che erano altri tempi:  si era sotto i baroni terrieri di allora, protetti dagli spagnoli che ne difendevano l’arroganza impositiva di tasse  insostenibili per i poveri arbëresh impegnati a strappare da vivere zappando la terra. E perciò i casali di quegli arbëresh che non versavano quanto ritenuto legittimo “da lor baroni “, venivano sottoposti a rappresaglie feroci: incendiate le casupole, mozzate le teste di uomini e donne, distrutti i pochi frutti delle terre lavorate. Lungro ( e parlo del mio paese soltanto, per amor di….patria!) fu incendiata per ben due volte ( nel 1558 e  nel 1648, sempre dagli spagnoli) ed i lungresi, notoriamente teste alquanto calde e per nulla disposti a sopportare soprusi ) si ritrovarono sgozzati e massacrati con azioni delittuose di rara ferocia!
Allora vogliamo parlare dell’accoglienza riservata agli shqjpetari del nostro tempo? Il Presidente Mattarella farà memoria delle deportazioni programmate nella triste alba del  3 dicembre 1997 dai campi profughi di Ancona, Lecce, Foggia , dal Camping “Orsa Maggiore” di Cassano Murge ( circostanza registrata sotto i miei occhi!!!) per decisione dell’allora Ministro degli Interni del primo Governo Prodi, da tal G. Napolitano, poi Presidente della Repubblica? Se ben ricordo, le prede ammontarono a 544 ! E ricorderà la piccola “MIRSADA”, un batuffolo di poche carni e ossa, sordomuta e con problemi di deambulazione, salvata per miracolo da un militare che l’ha strappata al fuoco delle baracche, mentre la madre ne gridava il nome e inveiva contro gli italiani “ criminala…italiani criminala…”( gridava!) : ricaricati su autobus, opportunamente predisposti in fila di carico? E ricorderà che madre e figlia furono , senza pietà, affastellate sull’ultimo autobus in partenza ? Di certo, non saprà che dall’Albania queste sventurate furono riportate in Italia non con azione di governo ma  per intervento di Renzo Arbore, che attivò “Filo d’Oro” di Osimo al fine di far curare la piccola. ( Non so che fine abbia fatto! Ne ho perso notizie).

E cosa saprà dire del 28 marzo del 1997, Venerdì Santo, allorché la nave corvetta della marina militare  italiana, SIBILLA, mandata lungo il canale di Otranto per impedire ogni prova di sbarco sulle coste pugliesi di fuorusciti albanesi, nel tentativo di  ostacolare la motovedetta albanese “Katër i Radës “ ne determinò quel delittuoso  speronamento,  che portò a morte 81 albanesi, mentre altri 24 ( o 27 ?) rimasero dispersi e solo 34 sopravvissero ? Non voglio parlare delle vicende del motopeschereccio “Dukati”, primissima operazione di fuga dall’Albania, coronata da successo, (anno 1990 ), perché mi ha visto protagonista e in pochi ne conoscono la trama, ed ancor menola conosce  il Presidente Mattarella. Ecco l’accoglienza ricevuta in ogni stagione i fratelli nostri albanesi . No so dimenticare.
Per tutti questi motivi non salgo sul carrozzone presidenziale del 7 di novembre prossimo. Per tutti questi motivi resto a piedi.



lunedì 29 ottobre 2018

Storie di Capitanata.Una colonia di Albanesi a Poggio Imperiale


Poggio Imperiale (FG) foto Trip Advisor
di Teresa Maria Rauzino

La microstoria è l’humus di cui si alimenta il presente di una comunità, nel suo costante cammino verso la democrazia ed il progresso, fatto di tempi lunghi. La ricerca non si esaurisce mai con il lavoro di un solo autore, ma si completa e si perfeziona con nuovi studi ed ulteriori documenti. Soltanto questo controllo incrociato porta gradualmente alla conoscenza storica. La storia di Poggio Imperiale, in questi ultimi anni, è stata indagata dai ricercatori Giovanni Saitto e Alfonso Chiaromonte che hanno colmato i vuoti e  precisato circostanze ed eventi che hanno visto la loro comunità protagonista, nel suo piccolo, della grande storia.
Chiaromonte, con La Capitanata tra Ottocento e Novecento, completa la sua trilogia di studi su Poggio Imperiale. Egli ne approfondisce la vita politico-amministrativa, basandosi su interessanti fonti d’archivio: le delibere decurionali, comunali e gli Stati Discussi, cioè i bilanci comunali. Attualmente queste “carte” si trovano versate all’Archivio di Stato di Foggia, nei Fondi “Affari comunali” e “Affari demaniali”. L’autore, per focalizzare i momenti-chiave che hanno caratterizzato la storia dell’insediamento di Poggio Imperiale, non trascura altre fonti come i carteggi dell’Intendenza (Opere Pubbliche Comunali)”, del “Governo e Prefettura”; gli “Atti di Polizia” e della “Sottoprefettura di San Severo”; consulta altresì “Il Giornale dell’Intendenza di Capitanata” e la pubblicistica del tempo.
La storia di Poggio Imperiale è inquadrata nel contesto della storia di  un’intera provincia: la Capitanata. Una terra, che per la favorevole posizione mediterranea fu, nel corso del tempo, un crocevia di civiltà e di culture, oltre che meta ambita di conquista militare. Una terra che si caratterizza, nell’area di Lesina, come una zona che gradualmente, a causa di eventi vari, si spopolò, assumendo l’aspetto di una terra paludosa, miasmatica, portatrice di malaria e di morte. La popolazione che abitava quei territori se ne andò via, in cerca di migliori condizioni di vita.
Ma ci fu anche gente che arrivò dalle opposte sponde dell’Adriatico: un nuovo insediamento, voluto fortemente dal principe Placido Imperiale per sperimentare anche nel feudo di Lesina le sue teorie illuminate, venne colonizzato da coloni provenienti dall’Albania, oltre che dalla Puglia, dalla Campania, dalla Basilicata, dalla Calabria.
   
IL FEUDO DELL’AVE GRATIA PLENA
Ma vediamo di risalire alle origini della comunità di “Terranova”, com’era denominata un tempo Poggio Imperiale. Il feudo di Lesina, all’inizio del XV secolo, era stato donato nel 1411 dalla regina Margherita di Durazzo alla Santa Casa dell’Annunziata di Napoli, «come voto per la recuperata salute e a scomputo dei propri peccati e di quelli degli augusti suoi congiunti». L’Annunziata, retta da una confraternita laicale della famiglia Capece, era divenuta uno spazio nobiliare del quartiere di Capuana, arena di una gara di prestigio tra i nobili di quel Seggio. L’ingente patrimonio della “Casa Santa”, formato da beni feudali sparsi in tutte le province del Regno, all’inizio del XVII secolo forniva una rendita annua di 5390 ducati, «per arrendamenti, fiscali, gabelle», e per la direzione delle opere di carità (ospedale, brefotrofio, Conservatorio). Questi beni dal 1580 furono gestiti dal Banco dell’AGP (Ave Grazia Plena), definito lo “splendore del regno” per le sue vaste ricchezze e per le sue «immense opere di pietà».
La Casa dell’Annunziata tenne il feudo di Lesina per più di due secoli, fino a quando nel 1702 il suo Banco, «per cattiva amministrazione e per i continui prelievi di danaro fatti da Filippo IV per spese di guerra», fu dichiarato fallito, avendo contratto debiti per sei milioni di ducati. Da quel fallimento ebbero origine lunghe liti e laboriosi compromessi con i molteplici creditori.
Il Sacro Regio Consiglio fece valutare il feudo di Lesina dal tabulario Donato Gallerano, che nel 1729 ne compilò un dettagliato “apprezzo”. Nel 1750 anche questo feudo dell’A.G. P.  fu posto in vendita sub asta.
Quel bando d’asta ci è stato descritto in tutti i particolari dallo studioso Giovanni Saitto, il quale precisa che i contendenti furono Domenico Cataneo, principe di San Nicandro e Placido Imperiale, principe di Sant’Angelo dei Lombardi. All’asta parteciparono i loro fiduciari; la spuntò Notargiacomo il quale, “per persona da nominare”, si aggiudicò il Feudo di Lesina. Placido Imperiale (che era appunto la persona da nominare)  l’8 marzo 1571 si aggiudicò il feudo per 104.201 ducati. Il prezzo finale dell’acquisto del feudo di Lesina fu di 108.256 ducati e 25 grana, in quanto ai precedenti 104.201 ducati occorsi al Notargiacomo per aggiudicarsi l’asta, si aggiunsero 800 ducati per altri beni che  il Gallerano non aveva calcolato nel suo apprezzo.
   
PLACIDO IMPERIALE, PRINCIPE “ILLUMINATO”
Il 3 aprile 1753 l’acquisto del feudo ottenne il Reale Assenso da parte del Re di Napoli, Carlo III di Borbone. Costui, assunto il titolo di re delle Due Sicilie, il 2 giugno 1735, si circondò di ministri capaci ed intelligenti, tra cui Bernardo Tanucci, che intraprese un profondo rinnovamento dello Stato, aperto alle idee illuministiche ormai diffuse in tutta Europa. Su questa strada lo seguirono i feudatari più intraprendenti, come gli Imperiale a Lesina.
Placido Imperiale era un principe illuminato, «nato per il bene del genere umano», secondo una definizione molto in voga a quei tempi. Apparteneva ad una famiglia denominata Tartaro, di origine mercantile. Giovanni, il capostipite, intorno al 1100, si era trasferito in Italia, dopo essersi arricchito negli empori genovesi di Caffa e Tana, sulle sponde del  Mar Nero. A Genova, già nel XII secolo, la sua famiglia divenne “grandissima di nobiltà”, per usare una terminologia cara ai trattati di araldica. I discendenti furono chiamati a far parte degli “Otto Nobili”, massima autorità dell’epoca, ricevendo le più alte cariche della Repubblica, e collezionando onorificenze come il “Toson d’Oro”. Nel 1528 erano inclusi nelle 28 famiglie che costituirono gli “Alberghi dei Nobili” e che governarono la Repubblica di Genova. Fu probabilmente in questa data che la famiglia assunse il cognome della casata più importante, Imperiale, com’era uso all’interno di questa Istituzione che aggregava le famiglie più nobili della città.
La famiglia Imperiale, grazie alle sue ingenti ricchezze, acquistò feudi e titoli anche negli altri stati della penisola italiana. A Napoli, il 4 gennaio 1743 fu ascritta al “Libro d’oro” del Seggio di Capuana. Il ramo degli Imperiale di Sant’Angelo, capostipite diretto del fondatore di Poggio Imperiale, aveva avuto origine il 4 aprile 1631, quando il dottor Giuseppe Battimello, “per persona da nominare”, acquistò per 108.750 ducati il feudo di Sant’Angelo dei Lombardi (Avellino), nel Principato Ultra di Napoli. Gian Vincenzo Imperiale acquistò il feudo, motivando la sua scelta con una precisa regola economica: disse che «il permutar mobili in stabili non gli parea contrario alla regola economica». Non lasciò Genova per trasferirsi nel suo nuovo feudo, non ci andò ad abitare. Ne affidò l’amministrazione ai suoi agenti.
Toccò a Giulio Imperiale trasferirsi definitivamente da Genova a Napoli, per curare personalmente la gestione della proprietà, aumentandone i  beni e il profitto. L’esempio fu seguito dal figlio Placido il quale, dopo la morte del padre, rientrò a Napoli, assunse la gestione dell’immenso patrimonio ereditato, al quale si aggiunse lo “Stato” di San Paolo di Civitate in Capitanata, ereditato dalla madre Cornelia Pallavicino. Placido sposò Anna Teresa Michela Acquaviva d’Aragona, figlia di Giulio Antonio, duca d’Atri e conte di Conversano e di Maria Spinelli dei principi di Tarsia, di origine garganica.
Postosi sulla scia di tanti imprenditori che vedevano nella trasformazio­ne dei terreni agricoli il ritorno di cospicue rendite, il Sant’ Angelo avviò nei propri possedimenti un importante processo di sviluppo e di colonizza­zione interna che passava essenzialmente attraverso la chiusura e la messa a coltura dei demani feudali sino ad allora prevalentemente adibiti a bosco e pascolo. Nel Principato Ultra e in Capitanata egli mutò  diversi suoi feudi «dal tristo aspetto al più favorevole, che immaginar si possa; vedendosi il tutto posto a profitto, o a maggior aumento, a segno che siccome la loro ereditata rendita era di annui ducati quindicimila, oggi giugne a ducati sessantamila» [1]. L’impresa più rilevante portata a termine da Placido Imperiale in Capitanata fu senza dubbio la fondazione di Poggio Imperiale, strettamente connessa con l’acquisto nel 1751 del feudo daunio di Lesina. Il progetto venne avviato concretamente nel 1759, anno in cui il principe concesse ad un folto gruppo di coloni del circondario, ai quali fornì gratuitamente case, animali e masserizie, un appezzamento da colonizzare.
Anche se molti illuministi dell’epoca si mostrarono scettici sulla effettiva realizzazione dell’opera, la colonia si sviluppò e, accrescendosi, con­sentì nel giro di mezzo secolo la formazione di una nuova, seppur modesta, comunità amministrativa. Accanto a questo evento non bisogna tuttavia dimenticare ciò che venne effettuato da Placido Imperiale nel suo feudo irpino. Qui, a Pontelomito, con l’impianto di estesi castagneti, destinati a sostituire più produttivamente i vecchi boschi, assicurò l’assetto idrogeologico del suolo. Introdus­se, sia pure su scala ridotta, colture arboree intensive come gelseti e vigneti. Inoltre sfruttò, per finalità industriali, le risorse idriche, installando, oltre a numerosi mulini, una grossa cartiera a dodici pile e alcune gualchiere, cioè delle macchine per la conciatura delle pelli, la cui forza motrice era data dall’acqua. Infine, nella tenuta di Fermentino, avviò un grosso allevamento di bachi da seta.
L’acquisizione del feudo dell’AGP da parte di Placido Imperiale coincise con gli anni in cui gli illuministi della corte partenopea, fra cui Ferdinando Galiani, esortavano il re Carlo III di Borbone  ad adottare nuovi provvedimenti per incrementare l’agricoltura nel Regno di Napoli, specialmente nel Tavoliere daunio [2]. In questo clima favorevole sia alla crescita della popolazione che allo sviluppo agricolo della Capitanata, si colloca la fondazione di Poggio Imperiale.
   
LA COLONIA ALBANESE
Alcuni anni dopo aver definito l’acquisto del feudo di Lesina, Placido Imperiale visitò i nuovi possedimenti e, confortato dagli esiti positivi delle trasformazioni fondiarie realizzate nel suo feudo irpino, decise di tentare un esperimento di bonifica anche in Capitanata. Per attuare il progetto, scelse una boscosa collinetta chiamata «Coppa di Montorio», distante circa miglia due da Lesina e quattro da Apricena. Dopo averla fatta disboscare, la rese coltivabile. Quindi, sul punto più alto di essa, fece costruire un «Casale» costituito da una palazzina baronale con sedici vani al pianoterra, dove vennero ubicati gli uffici contabili, i magazzini, le scuderie, piccole abitazioni per i contadini, una stalla per il ricovero degli animali ed un magazzino per gli attrezzi agricoli e sedici locali al primo piano.
Placido Imperiale, dopo la sua visita del 1760, per popolare il Casale, fece emanare un bando e fece affiggere avvisi per il Regno e fuori, promettendo a chiunque volesse stabilirsi nella nuova terra, i seguenti privilegi:
ricovero ed alloggi gratuiti;
una certa quantità di grano per il vitto e per la semina;
un’estensione di terreni per la semina, per ortaggi e vigne senza pagamento;
diversi animali per i lavori campestri e per l’industria;
diritto di legname e di pascolo nelle terre del principe;
il diritto di portare armi ed immunità, ed altri ancora;
un medico e cappellano, a salvaguardia della salute fisica e spirituale dei coloni.
A rispondere alla chiamata furono quindici famiglie di coloni provenienti da vari luo­ghi della Puglia e da Roccella Ionica, una località della Locride in provincia di Reggio Calabria. A questi pionieri va il merito di aver per primi dissodato le terre incolte e, quindi, di aver avviato il processo di colonizzazione voluto dal principe Imperiale. Era il mese di maggio dell’anno 1759. Nasceva Poggio Imperiale. Vennero costruite altre abitazioni e molte stalle furono con­vertite in alloggi, pronti ad accogliere l’arrivo di nuovi abitanti.
Nel gennaio del 1761, passeggiando per le vie di Napoli, il principe Imperiale incontrò dei profughi albanesi. Questi esuli erano emigrati in Italia, abbandonando a Scutari tutti i loro beni: in centosettanta, in una notte del mese di gennaio del 1757 si erano imbarcati su di una “marsiliana” nel porto di Aravia, piccolo villaggio poco distante da Antivari, e risalendo verso nord, dopo giorni di dura navigazione, avevano raggiunto il porto di Ancona. Nella città marchigiana erano stati tenuti in quarantena nel “lazzaretto”. Dopo varie peripezie nello Stato Pontificio, si erano trasferiti nel Regno di Napoli. Ed è qui che stipularono presso il notaio Martucci un capitolato con Placido Imperiale, in cui erano fissati le franchigie promesse nel bando.
Il capitolato prevedeva dei precisi doveri nei confronti del feudatario: se le famiglie albanesi avessero deciso di abbandonare la fattoria dovevano restituire al principe “animali, franchigie  di affitto di case, di affitto di territori, di pascolo, e di qualunque altra cosa”. Fino all’ultimo centesimo.
Nel 1761 diciotto famiglie albanesi si trasferirono a Poggio Imperiale, seguite da altre diciassette, complessivamente 35 famiglie, per un totale di 174 persone. Altri albanesi si stanziarono fra il 1762 e il 1769, portandosi con sé due sacerdoti di rito greco. Ma la sorte non arrise ai pionieri. Nel 1762 ci fu una gelata, nel 1764 una terribile carestia. Questo anno fu definito “l’anno della fame”. Quasi tutti gli albanesi andarono via, prendendo la via di Roma. Rimasero nel nuovo villaggio solo tre famiglie, in totale 17 albanesi. Altre famiglie vi giunsero nel periodi 1762/1764, dalla Capitanata, ma anche da Barletta, da Avellino, da Catanzaro e Cosenza e soprattutto dalla provincia di Benevento, precisamente da Reino e da San Marco dei Cavoti. Nel 1786 la popolazione contava 444 abitanti, nel 1815 ne contò 778.
    
LA NASCITA DEL COMUNE DI POGGIO IMPERIALE
Il 21 maggio 1806 re Giuseppe Bonaparte abolì ogni dazio e privilegio dello Stato sul Tavoliere, concedendo le terre “ai possessori in atto”. Non esistevano, almeno dal punto di vista legislativo più differenze tra i vari ceti e tutti i cittadini potevano aspirare ai pubblici impieghi. «Commissario ripartitore»,  incaricato per la sistemazione dei demani per i Comuni della Capitanata e del Molise, fu Biase Zurlo (1775-1835) [3], «il quale tenne conto della necessità di dar vita al nascente paese di Poggio Imperiale, per cui, partendo dal presupposto che i suoi abitanti, di poco inferiori a quelli di Lesina, dovevano essere considerati in tutto e per tutto cittadini del centro lagunare, operò una equa divisione dei terreni.
Nel 1811, data in cui ebbe luogo la ripartizione dei suoli, a Poggio Imperiale furono assegnate le seguenti zone: La Comune (detta localmente Mezzanella); la Fara; Coppa Montorio; Vallone dell’Elice;  Mezzana Feudale; San Nazario; Santo Spirito; Cimaglia;  per un totale di circa 5.237 ettari. Questi terreni furono posti in vendita ma «non pochi contadini si asten­nero dal partecipare alle quotizzazioni, data l’esosità dei canoni imposti dai Comuni». Beneficiaria delle «quotizzazioni» del demanio fu soprattutto i cosiddetti «galantuomini». Si venne a formare così una nuova classe di latifondisti che per anni detenne il potere economico e politico.
La separazione di Poggio Imperiale dal Comune di Lesina fu “pilotata” dagli Intendenti di Capitanata, sollecitati dal Ministro degli Interni che si avvicendarono in quegli anni. Ma fu con ritorno dei Borbone al potere, che esso divenne comune autonomo.  Il 18 gennaio 1816, cinquantacinque anni dopo che il principe Imperiale stipulò la convenzione con gli albanesi, nei locali della Palazzina baronale si riunì il primo Decurionato. Dal verbale d’insediamento, trascritto  da Giovanni Saitto, citiamo la dichiarazione dei nuovi amministratori diretta al Sottintendente: «Scelti a rappresentare il Corpo municipa­le, faremo di tutto per corrispondere gelosamente a quella fiducia che è stata in noi riposta. Ma quali inesperti fanciulli, che cominciando con incerto e malsicuro passo a segnar la terra, han bisogno della mano benefica che li conduce perché non inciampino, così noi privi di esperienza e di lumi suffi­cienti nella intrapresa carriera delle funzioni addossateci, pericoleremo certamente, se la vostra autorità non ci guida colla saviezza dei suoi consigli, la vostra fermezza d’animo non ci protegge e ci garentisce nel possesso dei nostri diritti dall’occhio maligno dei vicini. Questa grazia imploriamo e bramiamo meritarci. Felici noi se sapremo ottenerla, vi tributiamo gli omag­gi del più alto rispetto e vi salutiamo con distintissima stima» [4].
Dopo la seduta inaugurale, nella quale i decurioni espressero «i dovuti rendimenti di grazie a Sua Maestà per aver dichiarata la loro popolazione indipendente da quella di Lesina, nonché aver chiamato Poggio Imperiale a far parte dei Comuni del Regno”, i nuovi Amministratori ed il delegato dell’Intendente, seguiti da tutta la comunità, si recarono nella chiesa di San Placido e, innalzate all’Altissimo fervide preghiere per la salute del Re e per la pro­sperità del nuovo Comune, conclusero le celebrazioni con l’intonazione di un Te Deum di ringraziamento.
Il giorno dopo, il 19 gennaio, ci fu l’elezione del Sindaco e delle varie cariche istituzionali. Il Decurionato di Poggio Imperiale entrò nel pieno esercizio delle sue fun­zioni il 10 aprile 1816. Questa data è indicata da Matteo Fraccacreta come «epoca memoranda della prima municipalità di questa nuova Università».
Ma le “terne” dei primi eletti, come si evince dai documenti “riservati” pubblicati da Chiaromonte, sono sempre soggette alla discrezionalità dei Sottintendenti, che scelgono uomini a loro graditi, suscitando spesso proteste per incompatibilità dei politici designati. Poggio Imperiale si barcamena su poveri budget di “Stati discussi” al limite della sussistenza, che i vari Sindaci cercano di rispettare, non sempre compresi dalla cittadinanza e dai loro avversari politici sempre pronti a inviare esposti anonimi, ma anche debitamente firmati “a chi di dovere”.  Gli organi superiori, dopo accurate indagini per accertare la veridicità degli addebiti, svolgono spesso opera di paciere, minacciando i contendenti di adire a provvedimenti disciplinari, tesi a smorzare i bollenti spiriti dei riottosi beghisti.
Poggio Imperiale sale alla ribalta delle cronache nazionali nel 1860, durante le giornate del Plebiscito che sancì l’annessione del Regno delle Due Sicilie al nascente Regno D’Italia. Su 272 votanti, soltanto 72 votarono a favore  dell’Unità: 206 cittadini votarono contro. Unico paese del distretto di San Severo, Poggio Imperiale non accettò il Plebiscito. In seguito,  accetterà il nuovo governo, ma non dimenticherà i Borbone. Non dimenticherà coloro che nel 1816, separandolo da Lesina, lo avevano reso indipendente, elevandolo a comune autonomo. 
L’ultimo scorcio del XIX secolo, nonostante le beghe politiche e l’elevata mortalità per malaria, presenta  un quadro economico positivo. L’industria del marmo, il fabbisogno di mano d’opera in agricoltura e le tante attività artigianali, costituirono dei fattori che, oltre ad accrescere il numero di abitanti, giovarono al benessere dei terranovesi di fine Ottocento. L’alacre attività agricola del territorio del nuovo comune è testimoniata dalla presenza di 37 fosse granarie, alcune appartenenti a Placido Imperiale e ai suoi eredi, altre a cittadini benestanti, i cosiddetti “massari di campo” [5].
Nel Novecento la vita politico-amministrativa di Poggio Imperiale divenne sempre più vivace. Nel 1906 ci fu un’aspra lotta per ottenere la carica di Sindaco. Sorsero due fazioni: Bianchi e Rossi, ognuna facente capo ad una famiglia facoltosa, i Chirò per i primi, i Nista per i secondi.
Secondo il De Palma, «dichiarata aperta la lotta, con il paese suddiviso in due schieramenti, la guerriglia arrivò ai guasti delle parentele e delle amicizie; ricorsi alla Magistratura; risse e ferimenti su pretesti che affogavano nel ridicolo. Militava nello stato maggiore del campo rosso il parroco, il quale non perdeva occasione per evidenziare il suo ruolo; discriminava a suo talento; spesso immischiava la religione di Cristo nei suoi non cristiani proponimenti e spesse volte dal pulpito si spandeva per aggravare la discordia. Giunse a determinare lo scompiglio finanche nelle due congregazioni religiose allora esistenti e, inoltre, per confermare la sua fede politica, fece tinteggiare di rosso la facciata esterna della Chiesa Matrice nonché quella del campanile».
Il 2 giugno 1946 anche i cittadini di Poggio Imperiale vennero chiamati alle urne per esprimere il loro voto sulla forma istituzionale da dare allo Stato italiano. Ancora una volta, il dato elettorale della comunità si discostò dalla tendenza nazionale: vinse la monarchia, con 1062 voti contro i 632 della Repubblica.
    
   

    
NOTE
1 Lo testimoniò un illuminista suo contemporaneo, il Targioni, in Saggi fisici, politici ed economici, Napoli 1786, p. 154 e ss.  
2 Scriveva Galiani: «Io conto fra le molte cause di danno il sistema della Dogana di Foggia. sistema che al volgo sembra sacro e prezioso perché rende quattrocentomila ducati al re; al saggio sembra assurdo appunto perché vede raccogliere solo quattrocentomila ducati da un ‘estensione di suolo che ne potrebbe dare due milioni; abitarsi da centomila persone una provincia che ne potrebbe alimentare e far ricche e felici, trecentomila; preferirsi le terre incolte alle colte; l’alimento delle bestie a quello dell ‘uomo; la vita errante alla fissa, le pagliaie alle case; le ingiurie delle stagioni al coperto delle stalle e tenersi infine un genere di industria campestre».
3 Biase Zurlo era nativo di Baranello, in provincia di Campobasso. Laureatosi in legge, era divenuto  governatore di diversi comuni del Molise. NeI 1802 venne invitato in Puglia in qualità di Commissario di guerra. Ricoprì successivamente diversi incarichi e precisamente: Consigliere d’intendenza, Direttore delle contribuzioni dirette, Commissario ripartitore (1809), Intendente di Capitanata (1822) e, infine, Consultore di Stato a Napoli. Poggio Imperiale apprezzò il suo operato, dedicandogli alla memoria una via del paese.
4 G. SAITTO, Poggio Imperiale. Storia, usi e costumi di un paese della Capitanata, Edizioni del Rosone, Foggia 1997, p. 74.  
5 La pianta topografica del Piano delle Fosse di Poggio Imperiale, custodita nell’Ufficio tecnico erariale di Foggia, indica questi posizionamenti all’interno del piccolo centro. Ventisette fosse erano ubicate nella Piazza Imperiale, cinque all’inizio di via de Cicco, cinque all’inizio di via Palazzina e Via Focarete. Avevano dimensioni che variavano da quattro-dieci metri di profondità e da tre-sette metri d’ampiezza. Per insilare il grano nelle fosse era necessario seccarlo bene all’aria ed al sole. Le fosse dovevano essere ispezionate periodicamente: se si notava un principio di fermentazione, era necessario estrarre tutto il grano, distenderlo di nuovo sui teloni, spalarlo ripetutamente per farlo asciugare ed essiccare perfettamente. Scendere in una fossa di grano appena aperta significava incorrere in una asfissia mortale, se non si interveniva immediatamente a salvare l’incauto “sfossatore”. Per far fuoriuscire l’anidride carbonica che vi si era formata all’interno, le fosse venivano ossigenate per molte ore, prima di procedere alle operazioni di svuotamento. Per maggiore sicurezza gli sfossatori, prima di scendere nelle fosse, veniva calata giù, appesa a un filo, una lucerna accesa. Se si spegneva significava che l’interno della fossa c’era anidride carbonica, se restava accesa significava che la fosse era ben ossigenata: si poteva quindi scendere senza pericolo (cfr Chiaromonte cit.).
    
BIBLIOGRAFIA
G. SAITTO, Poggio Imperiale, Storia, usi e costumi di un paese della Capitanata, Edizioni del Rosone, Foggia 1997.
A. CHIAROMONTE, La Capitanata tra Ottocento e Novecento, Edizioni del Poggio, 2002.

Fonte: www.mondimedievali.net

lunedì 22 ottobre 2018

Albanesi nei possedimenti della Repubblica di Venezia in Grecia nei secoli XV e XVI




(di Vincenzino Ducas Angeli Vaccaro)


Gli Archivi Veneziani, nonostante le molteplici avversità, del tempo, degli incendi e in maniera minore della negligenza del singolo, sopravvissero nelle turbolenze dei secoli, giungendo a noi quasi del tutto integri. Sono un grande tesoro di materiale storico unico al mondo, sia per importanza che per ricchezza. I documenti di questo “gioiello”, fino a qualche decennio fa, il più delle volte non venivano catalogati ed accorpati in registri, ma formavano solo una raccolta di fogli volanti e, come scritto sopra, spesso preda di furti, delle ingiurie del tempo e dei possibili incendi. Tutt’oggi questi Archivi sono una inesauribile fonte di carteggi, ove il ricercatore può attingere materiale inedito e non, per gli studi su quella che è stata la maggiore potenza marittima, nell’arco di diversi secoli, del Vecchio Mondo: la Talassocrazia della Repubblica Veneziana (ϑαλασσοκρατία).
 Gli Archivi Veneti sono complessi e quindi richiedono capacità e passione e quasi sempre un rigore scientifico e un armamentario di conoscenze che possono arrivare anche da altri ambiti, come avere una certa padronanza sulle lingue sulle quali si lavora, (nei suddetti Archivi prevale la scrittura in latino medievale o dialetto veneziano) in quanto è necessario non fare affidamento unicamente sulle opere tradotte ma anche sul bisogno di esaminare minuziosamente documenti in archivi pubblici e privati in lingua originale. Vale lo stesso per l’italiano volgare o per il greco e il latino. Le cancellerie veneziane, in particolar modo, dagli inizi del XIII secolo decisero di utilizzare il “sermo vulgaris”, il latino volgare, ufficializzato definitivamente nel 1402 con una deliberazione dello stesso Maggior Consiglio, scritta in volgare, che istituì la cancelleria « Secreta », cioè una sezione separata degli uffici di palazzo in cui sarebbe confluito il " materiale ritenuto meritevole di adeguata riservatezza".
  Una mole di documenti ci viene offerto in proposito dalla Cancelleria Veneta, nello specifico dalla Cancelleria Segreta, dalle Relazioni o Giornali del Senato, dai Dispacci dei vari Provveditori operanti in territorio greco come Jacomo Barberigo provveditore militare nel Peloponneso dal 1455 al 1466 e Bartolomeo Minio provveditore a Nauplia o Napoli di Romania dal 1479 al 1483; dalla Scuola dei Diaristi dove i maggiori esponenti furono Marin Sanudo e Stefano Magno alias Emmanuele Cicogna. In definitiva una documentazione che ci mostra nella sua interezza la politica talassocratica e coloniale, sulle coste e sulle basi adriatiche e ioniche, della Repubblica di Venezia fino alla sua decadenza, che pone in evidenza anche l’aspetto, oltre che economico, anche sociale e politico.

A favorire la “colonizzazione” di Venezia di gran parte delle coste e di isole importanti della Grecia, fu sicuramente la fine della Quarta Crociata, nel 1204, voluta dalle potenze cristiane occidentali, alle quali la Repubblica era alleata. Dopo la presa e il sacco di Costantinopoli e l’incoronazione di Imperatore d’Oriente di Baldovino IX di Fiandra, Venezia nella spartizione del grande Impero Bizantino, pretese ed ottenne gran parte delle coste occidentali e non della Grecia, le isole di Eubea  ex Nigroponte, la quale per un certo periodo fu infeudata della famiglia Carceri di Verona passando nuovamente sotto la signoria di Venezia nel 1366), Andros, Candia, Idra, Leucade, Santorini, Cefalonia, Creta,  Nasso, Egina, le fortezze di Corone, Modone, Nauplia o Napoli di Romania e Maupasia o Malvasia, in sostanza tutti i punti strategici più rilevanti del Peloponneso, del Braccio della Maina e della Laconia.

La pace stipulata a Torino tra Venezia e Genova del 1381, avviò la Serenissima a una nuova grande ondata espansionistica oltremare, che si protrasse per tutto il Quattrocento e andò spegnendosi col finire del secolo. L'acquisizione più importante, negli ultimi anni del Trecento, fu Corfù, che si diede a Venezia nel 1386 dopo la caduta dei suoi precedenti signori, la famiglia Tocco. In quella stessa occasione Venezia acquisì le piccole isole limitrofe di Paxo e Antipaxo (Paxos e Antipaxos), e Butrinto (Bouthrotó), sulla terraferma antistante. Tre anni dopo passò sotto il gonfalone di San Marco anche Nauplia (Nauplion), chiamata dai Veneziani "Napoli di Romània", un'importante base sulla sponda nordorientale del Peloponneso. Nel 1390 furono assoggettate le isole cicladiche di Tino, Micono e Delo, e nello stesso anno il governo diretto di Venezia fu imposto a Negroponte, fino ad allora soggetta solo in parte alla giurisdizione della Serenissima. Essa, padrona in Grecia di molte fortezze dopo la IV Crociata,  senti la necessità, considerando la vastità dei possedimenti, di accogliere masse di albanesi che già in precedenza si erano stabilite nell’Ellade, in maniera più accentuata in Tessaglia, nel Despotato di Morea e nel Ducato Catalano. Si vedano i precedenti scritti su “gli Albanei in Grecia nel protomedioevo e Albanesi nei possedimenti Catalani e del Despotato di Morea”1 Fin dagli inizi del XV secolo Venezia avvertì che non doveva solo perseguire i suoi interessi commerciali e politici nelle colonie in Grecia ma  di rendere partecipi e quindi integrando nella sue attività di terraferma anche le popolazioni indigene e in particolar modo i greco albanesi. La Repubblica per il consolidamento del suo potere, con acuta spregiudicatezza, adottò nei loro confronti una politica di protezionismo, attraverso aiuti economici, leggi umane e privilegi vari. Essa non usò la insopportabile politica fiscale dei Despoti di Morea che incautamente risvegliò dal torpore e quindi alla rivolta anche i contadini guidata da Pietro Bua dal 1453-1454. Venezia comprese che i greco albanesi in Grecia non erano solo una minoranza culturale, ma anche una comunità affidabile rispetto ad altre popolazioni quali quella Valacca e Slava. La presente ricerca, ormai intrapresa da un ventennio, vuole essere di sostegno alla consolidata tesi, mia e di altri, che da svariate regioni della Grecia, che verranno annoverate, considerevoli masse di greco albanesi, dalla fine del XV  fino alla fine del XVII ( Manioti), vennero a fondare e ripopolare molti casali nel Mezzogiorno d’Italia.

Un primo documento riguardo i privilegi che Venezia offrì ai greco albanesi e non solo è riportato sia da K. Sarthas  in Mnemeia che nella Cancelleria Segreta Veneta.

 Immunità fiscale per gli albanesi in Negroponte

1401, 14 Februarii

Immunitas data venientibus ab extra, habitantium super Insula Negropontis.

Sapientes ordinum.

Capta. – Quod addantur gratie alias, videlicet die X° mensis Februarii instantis concesse et facte fidelibus nostri de Nigroponte pro eorum conforto et consolatione, quod considerata fidelitate sua, omnes illi, qui usque in diem presentem sunt cives terra Nigropontis, in facto Civilitatis Veneciarum et navigandi, habentur et tractentur in totum prout habentur et tractantur fidelis nostri de Candia, et Corono, et Mothono, exceptis Iudeis2.

Invito (furono esclusi gli ebrei) a ripopolare l’isola di Eubea o Nigroponte offrendo loro oltre benefici e privilegi di ogni sorta, come anche la Cittadinanza Veneziana, così come è stato fatto per coloro che hanno ripopolato Candia, Corone e Modone. L’anno successivo gli albanesi stabilitisi in Tessaglia e in Livadhja furono "benevolmente" sollecitati ad insediarsi nell’isola suddetta:



Cancelleriae Secretae

PARS ALTERA

(Deliberazioni Miste)

1402, 20 Aprilis

Quedam provisio facta, pro apopulando Insulam Nigropontis.

Sapientes ordinum.



Quod, pro apopulando Insulam nostram Nigropontis, Scribatur et mandetur Regimini nostro Nigropontis, Quod debeat facere publice proclamari, quod quilibet Albanensis, vel alia gens, qui non sint nostri subditi, qui cum equis volent venire et venient ad habitandum, a die captionis presentis partis, usque duo annos proxime sequentes, in Insulam Nigropontis, recipientur et sin tac erunt perpetuo liberi et absoluti ab omi angaria reali et personali, et sibi donabuntur de terrenis nostri comunis incultis, que tamen sint apta ad laborandum, cum conditionem tamen,  quod dicti tales Albanenses et alia gens equestris, teneantur tenere toto equos, quot homines capita familie erunt numero, nec possint recedere de dicta Insula sine licentia dicti Regimini, sed teneatur et debeant, omni vice qua erit necesse, equitare et ire ad defensionem Insule, et offensionem quorumcumque volentium dannificare Insulam nostram predictam, et post mortem eorum, dicta terrena sint et esse debeant suorum heredum, qui habitarent super dicta Insula, cum obbligatione, tenendi angariam predicta. Si vero non haberent  heredes, dicta terrena revertantur in nostro comune. Verum dictum Regimen Nigropontis, in facto dandi de dictis territoriis nostri comunis dicti Albanensibus, et aliis equestribus venientibus habitatum in Insula predicta, habeat libertatem dandi predictis illam quantitatem de terrenis nostri comunis, per modum predictum qui ipsi Regimini videbitur, secundum qualitatem personarum, et quantitatem ac conditionem familia illius qui venerit habitatum in Insula predicta.3

Si trattò di un proclama per il ripopolamento dell’isola di Negroponte da parte di albanesi e altra gente che non fossero loro sudditi. Gli Albanesi che vorranno stabilirsi nell’isola saranno resi immuni da ogni tassazione (angaria) e a loro saranno donati terreni incolti affinchè con piena padronanza li potranno coltivare. Quote di terreno saranno donate in base alle esigenze e al numero del nucleo familiare. Se i proprietari delle terre a loro assegnate, dopo la loro morte, non avranno eredi diretti le stesse terre ritorneranno al bene comune (alla disponibilità del Provveditore). In cambio gli albanesi che verranno ad insediarsi nell’isola dovranno allevare tanti cavalli quanti sono i capifamiglia; dovranno difendere l’isola insieme ai veneziani contro le incursioni dei nemici e non potranno abbandonare l’isola senza il permesso del Provveditore del Doge.

Un quarto di secolo dopo la Repubblica reiterò l’invito ai greco albanesi:

1425,  22 maii

Commissum Regimini Nigropontiss, quod permittat omnes illos Albanenses qui voluerint venire ad habitandum in Insulam predictam.

Quod scribatur Regimini Nigropontis in hac forma videlicet:

Sapientes ordinum.

Capta – Intellectis litteris, quibus nobis significastis, quod certa Capita albanensium ducaminis et diversorum locorum numero familiarum trecentarum intraverunt Insulam et illam volunt habitare, quorum adventus videtur summe placere Comunitati nostre Nigropontis, que etiam superinde nostro domino scripsit, Intellecto etiam quantum eorum adventus affert comodum et utilitate dicte Insule, Vobis respondemus cum nostris consiliis rogatorum et additionis, quod placet nobis, et sic vobis mandamus quatenus permittatis dicto albanenses et alio albanenses, qui vellent venire ad dictam Insulam, ipsam Insulam habitare, providendo et habendo tantem bonam advertentiam, quod non habitent in fortilicia nostra, sed intrare et exire possint ad partem ad partem, et non habitare in eis pro securitate eorum locorum, sed extra persistant et non inferant dammnus subditis nostris.4



Anche in questa richiesta di ripopolamento dell’isola i greco albanesi godettero di privilegi, ma con l’obbligo di non poter abitare nelle fortezze per la loro incolumità, potendo, tuttavia, uscire ed entrare quando lo ritenessero opportuno, evitando di provocare danno agli abitanti stessi

Un documento incompleto del 1426 riguarda alcune famiglie albanesi che stabilitisi precedentemente in Livadia e in Valacchia (Tessaglia), si insediarono nell’isola:

1426, 21 januarii

Quod scriptum fuit Regimini Nigropontis pro factis Albanensium (( illegibile))…………….. Quod scribatur nostro Nigropontis in haec forma videlicet:

……..Alios autem Albanenses, quos dixistis utile esse, et obedientes, qui de Levadia partibus et de Blachia (Tessaglia) priusquam suprascripti, illuc venerunt, sicunt scripsistis , debeant retinere in Insula, et sibi providere de aliquo territorio nostro comuni, aut de alia..re, ut vivere et stare possint in ea Insula5
 Ancora oggi la maggior parte dell’isola di Eubea, ex Nigroponte, è abitata dai discendenti di quegli albanesi.

Ma Venezia non si accontentò solo di ripopolare e di porre in sicurezza l’isola di Eubea, altre cittadelle e basi fortificate dovevano essere regolate in tal senso.

Nella parte sud occidentale del Peloponneso, in Messenia, la Repubblica possedeva dal 1247 due cittadelle fortezza, esse erano Corone e Modone (gli occhi della Serenissima) ed anche qui essa ritenne opportuno che fossero i greco albanesi, in maniera minore e diversa rispetto Negroponte, a ripopolarla. Infatti le due fortezze non necessitavano di forza lavoro contadino, ma di truppe mercenarie per la difesa e operai addetti al rafforzamento delle loro mura.

Il primo documento che riguarda i rapporti tra gli albanesi e la fortezza di Corone:

1401, 16 februarii

Castellani accipiant XII equites Albanenses, vel alios pro quolibet pro bono ipsorum.

Sapientes ordinum.



Capta. – Quod scribatur et mandetur Castellanis locorum nostrorum Coroni et Mothoni, quod debeant accipiere ad soldum XII Albanenses, vel alios homines confidentes equestres, pro quolibet dictorum locorum, qui sint boni et sufficientes homines, et habeant bonos equos, et arma consueti haberi deinde per tales, dando cuilibet ipsorum de soldo in mense, a quindecim usque viginti yperperos prout melius facere poterunt. Et quilibet ex castellanis in loco sibi commisso, debeant operari dictos equestres vel partem eorum, in mittendo et tenendo ipsos ad loca et passus Amoree in quibus melius et citius possit sciri adventius et intentio Turchorum vel aliorum volentium venire in Amoream, vel ad damna territorium nostrorum locorum, dando eis inter alia ordinem, quod subito et prestissime, cum sentirent aliquid de predictis novis, veniant ad informandum nostros Castellanos predictos, et debeant operari etiam dictos equestres, in faciendo reduci vilanos dictorum locorum nostrorum ad fortilicia, in casu necessitatis, et in fatiendo alia que videntur necessaria dictis nostris Castellanis, pro bono, custodia, et conservatione dictorum locorum nostrorum declarando dictis Castellanis quod accipiant dictos equestres qui sint homines habentes familiam, et quod sua familia veniat ad habitandum in locis predictis.6



Questo è il primo dei rari documenti riguardanti l’insediamento di albanesi nella fortezza di Corone,  Agli albanesi addetti all’agricoltura, insediatisi nelle pianure non distanti di Navarino non era permesso di soggiornare entro le mura del caposaldo veneziano.

 Il consiglio dei Savi agli Ordini, ordina ai castellani di Corone e Modone di assoldare  cavalieri albanesi già in possesso di cavallo che difendano i territori circostanti le fortezze. A questi albanesi è permesso abitare nei pressi delle fortezza con le proprie famiglie.

Ma alla Serenissima non bastava solo ripopolare e rendere floridi i suoi possedimenti in Grecia, essa ritenne opportuno, essendo dispendioso assoldare truppe di terra provenienti dall’Europa, per la difesa e quindi per la sopravvivenza delle suindicate colonie, reclutare truppe indigene e greco albanesi quest’ultimi ormai numerosissimi in Morea. Negli Annali Veneti del Provveditore Generale Stefano Magno, vengono numerati nel 1453 nel Peloponneso ciraca 30.000 Albanesi.7

 A tal proposito c’è un documento che ci informa riguardo i contatti che la Repubblica, attraverso il Provveditore Generale della Morea, Jacomo Barberigo intraprese con i maggiori capi degli Albanesi in Morea e nel Braccio della Maina:

Jacomo Barberigo

Provveditore Generale della Morea

Dispacci di Guerra di Peloponneso

1465 – 1466

Illustrissimo Princeps. Per ultimas meas, quas his replicatas ad Excellentiam Vestram mitto, significavi meum huc appulsum, et quicquid usque scribendum existimavi; per has autem Celsitudini Vostre significo me odio accessorum in campum pro dando expeditionem scriptioni Startiotorum restantium, Solicitavi quantum plus potui Petrum Bua et Alexium Bua, et duo alia capita Stratiotorum Albanensium, ut in campum profiscicantur; heri scribi feci eorum,  conductus me presente, quas auxi de aliquibus Stratiotis , et cum paga eos ac hora exercitum misi: habent Stratiotos circa 250. (…………). Spero equidem hos Albanenses vicinos his partibus tenere tota hac hieme cum modica expensa vestri dominii, per eaque habere potui. Dominatio vestra in tota hac Morea in diversis partibus, cum his qui sunt de  conducti, habent Stratiotos circa 1500 8.



Il Provveditore Barberigo scrive ancora a Venezia, questa volta in dialetto veneziano:

La spesa de questi Stratioti albanesi è bona per alcuni valenti homeni, ma per quelli sono scripti  sotto loro ne la gran conducte, non he bona perché quelli con dificulta se pono tenir in campo; preterea ne sono molti occupati in guardia de forteze, et passi, zioe con miser Michieli Ralli de le bande di Chiarenza et col Prothostatora et altri verso Napoli, che de 1500, non ce ne sono in campo ultra 500 Stratioti. Unde necessario e la provision vegna de Veneixia, et presto.

Deli Stratioti dela Illustrissima Signoria Vostra che sono in queste parte, ge sono alcuni valentuomini, et tra gli altri el conte Megara, el quale di prudentia proibita et animo al mio iuditio e excellentissimo.9



In questo caso ci sono da evidenziare alcune considerazioni molto rilevanti:

1.      Gli Albanesi assoldati, come scritto sopra, sono molto meno dispendiosi in termini economici degli altri mercenari europei;
2.      La loro fedeltà alla Repubblica non può essere soggetto a critiche sfavorevoli, quindi è ineccepibile;
3.      Gran parte dei capi Albanesi fa parte della casta dei feudatari che già dal IV secolo si stabilirono in questi territori. Riguardo tale tematica si tratterà in un altro scritto, essendo essa vasta e non riguardante solo la loro posizione nei possedimenti veneti in Grecia.

Molti greco albanesi del Braccio della Maina e dei vari “catune”( villaggi), soprastanti Calamatà e le alture delle Palamidi, nei pressi di Napoli di Romania, principalmente di estrazione contadina chiedono di essere reclutati tra le fila degli Stradioti.

Barberigo informa Venezia:

“Le in questa provintia molti principal Grexi et Albanesi, tuti dimande el viver, et provision, et chel va per anni 3, che iserve de bando son poveri et contadini et non ha con che sustentarse, et in parte dixe el vero, ne el etiam si Greci come da catune de Albanexi che tuti dimande denari; a tuti Serenissimo Principe, don bone parole, et prometto che conquistando questo paexe, come ha da sperar in la gratia de Dio, la Vostra Signoria remunera tuti i suoi servitori.10



Ma il Provveditore fece una selezione decidendo chi arruolare o meno come stradioti:

“….et è una spexa butada via quella se fa ne la mazor parte di loro, perché iservino male, et tuti altri coreno per essere Stratioti, et li acceptando, fanno delle cosse maco che ben facte”.11



Riguardo i dissensi tra i Greci e gli arconti Albanesi Barberigo scrive al doge:

“…Tuti questi Albanesi, che sono reducti ad obedentiam de la Vostra Illustrissima Signoria hanno in tanto odio questi Greci che per neum modo volevano esser o governadi da quelli; Et essendo per tutto deputati Greci et Albanexi ad governation de castelli, et luoghi, tuto di venivano ad agravarsi ad me, dolendosi di essere a lor governo, dicendo che ringratiavano Dio, essere liberati di mano di Greci”.12





La mole del carteggio riguardante gli Albanesi nei possedimenti della Repubblica di Venezia è inesauribile, quindi ritengo, per non fiaccare il lettore, che questa piccola dissertazione documentata possa essere sufficiente ad esaudire i curiosi e ad allontanare i misoneisti. Venezia dominava anche su altri possedimenti minori, come l’isola di Egina, Tenos, Patmos, Andros, Spetza, Idra ecc…., ma negli archivi di queste poco è conservato, in quanto la loro amministrazione la Serenissima la attribuì in gran parte ai suoi aristocratici i quali non ebbero la diligenza dei provveditori o dei rettori che tutto compilarono.


Fonti:

1. La Voce dell’Arberia Blogspot.com

2ASV Cancelleria Secreta Reg.° 45, 1400-1401, c. 138.

3 ASV Reg.° 46, 1400-1405, c. 15, t.°)  e ( K. Satahas,  Documents inedits relatifs a l’histoire del Grece au Moyen Age Vol: IV pag 111).

4 ASV Cancelleria Secreta . Reg. 35-1424-1425, c. 113 e K. Sathas o.c. vol. III pag. 126.

5 ASV Cancelleria Secreta – Reg. 56, 1426 1428 c, 70, t.

6 ASV Reg°. 45, 1400 – 1401, c. 139 t°. e K. Sathas o.c. Vo.II pag. 96

7 A. Zakythinos, Le Despotat Grec de Moree, pag. 126. Paris 1932

8 Biblioteca Municipale Magnani Bologna ( Dispacci della Guerra di Morea vol.I) e K. Sathas o.c. Vol. VI pag. 6

9 K. Sathas o.c. Vol. VI, pag. 15.

10 K. Sathas o.c. Vol. VI pag. 25. e S. Dragoumes, Χρονικῶν τοὺ Μορέος τοπωγνομικὰ-τοπογραϕικὰ ίστορικὰ ("Studi storico-topografici sulle cronache di Morea"), Atene 1921.

11 K Sathas o.c Vol. VI pag 26.

12 K Sathas, o.c. Vol. VI pag. 27.

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