domenica 25 marzo 2018

Il seminario divenuto covo di vipere e fucina del diavolo


Collegio Italo Greco Albanese San Adriano
 di Vincenzino Ducas Angeli Vaccaro



Per più di duecento anni, le popolazioni albanesi, sopraggiunte nel regno di Napoli fra il XV e il XVI secolo, sfuggite all’ira delle orde turche, ormai imperversanti sulla Grecia e l’Albania, vissero nella più completa ignoranza. Seppur accolte, grazie alla magnanimità Aragonese prima e di Carlo V in seguito, dalla malcelata benevolenza dei signori del luogo, ebbero più di tutte a subire i rigori della feudalità.Prevaricate ed oltraggiate, nella loro fierezza, dai baroni e dal complesso e più malvagio sistema di imposizione del feudalesimo ecclesiastico, nulla fu ad esse permesso per migliorare le condizioni di vita. Gli albanesi nonostante tutto, essendo sfumata la possibilità  del rientro nella madre patria, cominciarono a porre le basi per una stabile esistenza. Dissodarono terreni sterili, disboscarono colline selvose per migliorare l’agricoltura e l’allevamento; impiantarono ficheti, vigneti, uliveti e gelseti intensificando la coltura del baco da seta. Qualcuno abbandonato il misero e malsano tugurio, costruito per lo più da fanghiglia e sterco di armento con il sostegno di rami intrecciati ( kalivja), cominciò ad erigere le prime case in pietra con il supporto della calce. Nonostante le intraprendenti popolazini greco albanesi cominciassero a radicarsi territorialmente, ad inserirsi, gradualmente, nel preesistente tessuto sociale del Mezzogiorno d’Italia e a condurre un tenore di vita più tollerabile, rispetto al periodo dei primi insediamenti, il potere feudale non dava scampo, anzi esso, nelle sue forme più abiette, nel notare una loro positiva evoluzione, diveniva sempre più dispotica ed esacerbante. Il Procuratore Generale presso la Commissione Feudale, Davide Winspeare, nella Compilazione degli abusi feudali cosi scrive: “ Due specie di popolazioni che noi guardiamo ancora come straniere, hanno provato sopra tutte le altre i rigori della feudalità. Le Calabrie e la terra di Otranto sono ancora piene di popolazioni greche. Con più ragione potevano riguardarsi come straniere le popolazioni Albanesi che nel corso del decimo quinto e decimo sesto vennero a stabilirsi nel regno.I contratti taciti o espressi che precederono lo stabilimento di queste popolazioni, sono senza dubbio l’origine ed il titolo il più leggittimo de’ diritti dei baroni; ma se costoro avevano senza alcun titolo ridotto in servitù ed invaso le proprietà degli indigeni, quanto più doveno far valere la facoltà di dare una legge a colonie sopravvenute”. Ben più intolleranti e dispotici si mostrarono, alle genti albanesi, gli ordinari latini nelle quali dioces i essi conducevano esistenza. Venuti nel regno di Napoli,gli esuli, poveri ed ignudi portarono con sè null’altro che la avita Fede dei loro Padri: il Rito Greco Bizantino. I vescovi di Roma, sempre alleati dei baroni, non potevano assolutamente accettare che nelle loro diocesi fosse professato un’altro rito, un rito, forse ,che avrebbe dato negativi risvolti ai loro esercizi di ammansimento e di guida alla convenevole superstizione, che tanto aveva giovato ai loro interessi. 
Angherie e perangherie dovettero subire quelle povere genti accompagnate dai loro sacerdoti. Sarà opportuno trattare in altra occasione tale tematica in quanto complessa e ricca di risvolti.
Nel suo terzo anno di pontificato, l’11 ottobre del 1732, Clemente XII, di madre albanese, dietro reiterato interessamento dell’Italo Albanese Felice Samuele Rodotà dei Coronei, fondava in San Benedetto Ullano,Calabria Citeriore, il Collegio Greco per gli albanesi delle Due Sicilie. Determinata competenza del Collegio era quella formare il nuovo clero fra gli Albanesi d’Italia, con facoltà, dei Rettori , di conferire la laurea a quegli alunni che hanno seguito con esito positivo gli studi di Filosofia, Teologia e Sacra Scrittura. La reggenza del Collegio era affidata ad un Vescovo Greco Albanese, conferente gli ordini sacerdotali agli Albanesi di Calabria e di Sicilia.
Per oltre mezzo secolo, il Collegio Corsini, cosi primariamente denominato per il cognome del pontefice fondatore, fu -scrive Francesco Capalbo- eccellente centro di educazione per molti sacerdoti di rito greco, infatti, esso, non aveva nulla da invidiare al Collegio Greco di Roma, tanto è vero che, dall’espulsione dei gesuiti dal regno ( 1767), divenne il centro di educazione più rinomato delle Calabrie. Nei suoi sessant’anni di stabilità in San Benedetto Ullano, il Collegio, oltre ad erudire il clero greco, fra i quali i Vescovi Illuministi, aperti alle nuove idee d’oltr’alpe, Francesco Bugliari e Domenico Bellusci, grecisti di fama come Gugliemo Tocci da San Cosmo Albanese; Vincenzo Gangale da Firmo; Domenico Damis, zio del generale, da Lungro; Francesco Avato da Macchia Abanese, professore di greco all’Università di Bari; Vincenzo Canadè e Vincenzo Archiopoli da San Demetrio Corone, rispettivamente insegnanti nei licei di Bari e di Capua; Pasquale Baffi Ministro della Repubblica Napoletana, considerato dal Cuoco e dall’erudito conte Russo Orloff, come il più eminente grecista, con Nicola Ignarra, del Regno di Napoli.
Nel 1794, il Collegio, attraverso l’opera persuasiva del Vescovo Bugliari e di quella intermediatrice di Giuseppe Zurlo, giudice della Vicaria ed in seguito Ministro delle Finanze, con reale dispaccio, relativo agli Affari di Stato, fu trasferito da San Benedetto Ullano a San Demetrio Corone nel complesso badiale di San Adriano, stabilimento, la cui struttura architettonica, si prospettava più consona alle esigenti caratteristiche, proprie, di un istituto preposto alla formazione giovanile.
Con il crollo della Repubblica Napoletana, il rinomato centro di educazione per gli Abanesi d’Italia, dove anche Cristo era giacobino, subì duramente la reazione sanfedista: nel 1806 fu saccheggiato e lo stesso Vescovo Greco-Abanese, Francesco Bugliari,congiunto del martire Pasquale Baffi, venne barbaramente trucidato.
Mons. Francesco Bugliari
Con la fine del periodo francese e la restaurazione borbonica, il governo del Collegio non subì sostanziali mutamenti ed il vescovo Domenico Bellusci, succeduto al Bugliari alla presidenza, benchè nominato dai napoleonidi, – come scrive Domenico Cassiano- non ebbe a soffrire molestia alcuna. Tutto ciò, non perchè il Bellusci fosse diventato filo borbonico, ma per la politica di avvicinamento che Ferdinando IV voleva intraprendere con tutti coloro che in passato avevano abbracciato le idee transalpine. Grazie a questo vescovo, nel 1821,entra nel Collegio, accolto fraternamente, il matematico napoletano Gaetano Cerri, destituito dal suo insegnamento alla Nunziatella di Napoli per sospetta connivenza con i carbonari. Per quale motivo e per quali canali -scrive il Cassiano- il professore Cerri viene accolto nel Collegio Italo Albanese rimarrà un mistero, ma il Cingari propone:” il Rettore del Collegio era quel Domenico Bellusci, che aveva preso parte alle cospirazioni e ai moti dell’ultimo settecento e che era stato tra i più intimi amici di Pasquale Baffi, illuminato di Weishaupt; (che), nel 1820-21 poi, nonostante i severi controlli subiti nel quinquennio, l’alleanza tra professori del Collegio e la vendita carbonara di San Demetrio si era rafforzata, sicchè più occhiuta si era fatta la sorveglianza delle autorità nei confronti di questo gruppo di professori che pareva interessato più a forgiare i giovani alla lotta contro i borboni che non istruirli nel diritto o nella matematica.” Ma i vincoli del Vescovo Bellusci con la Carboneria erano evidenti, essendo, egli, in stretti rapporti con il cosentino Salfi, pure illuminato di Weshsupt, le cui opre erano lette e conosciute nel Collegio. La Carboneria del Mezzogiorno d’Italia, aveva, indubbiamente, una cellula di tutto rispetto fra i professori del San Adriano. L’opera di questa cellula era efficacissima e penetrante in quanto, attraverso gli alunni, venivano influenzate le loro famiglie  e i ceti più elevati della borghesia italo albanese e, come scrive il Mazziotti, alunno del tempo, ” non avrebbe potuto essere diversamente, perchè il Collegio aveva una lunga e consolidata tradizione radicale e giacobina, antica e recente, impressa nelle pietre, che formava gli eroi del libero pensiero e delle loro azioni gloriose.”  In quel periodo, non solo gli studi religiosi fiorirono in quella straordinaria “palestra”, ma anche quelli matematici e letterari; l’amore per la Libertà, per la Patria e per le Belle Arti, che i valenti professori profondevano con grande calore e ricchezza di dottrina, la elevarono a culla del Romanticismo Naturale Calabrese, in contrapposizione a quello Convenzionale Napoletano. A questo centro fece riferimento Francesco De Sanctis per rivelare la presenza di una “Scuola Romantica Calabrese”, che ebbe esponenti gli italo albanesi, pieni di fervida immaginazione patriottica, romantica e byroniana, come il Mauro,il Miraglia, il Giannone, il Baffi, Achille Frascino, Gerolamo De Rada ed altri ancora.
Dopo l’attentato al re Ferdinando II, il Collegio cominciò a provare le dure persecuzioni della reazione borbonica: l’attentatore era italo albanese e la sua formazione culturale la ricevette fra quelle mura, il suo nome era Agesilao Milano.
Dopo il tentato regicidio, il Ministero degli Interni inviò in quel Collegio e fra le varie comunita di origine albanese, un vero e proprio esercito di polizia e. molti alunni, sospetti di connivenza con gli innumerevoli liberali o essendo loro parenti, vennero allontanati dallo stabilimento. E quando fra quelle mura vennero organizzati i moti del 1848 per opera del Mauro, del Damis e del Rettore, sacerdote di Rito Greco, Antonio Marchianò, Ferdinando II non esitò nel definire il Collegio “Covo di Vipere e fucina del diavolo.” Quel centro, ad onor del vero, fornì alla causa della Libertà non solo grandi e valorosi patrioti, ma anche i più bei ingegni di tutte le Calabrie in ogni tempo.
Il Collegio chiuse la sua Gloriosa storia nel 1978.


Bibliografia:
Historia erectionis Pontificii Collegii Corsini, Angelo Zavarroni. Napoli 1750;
Democrazia e Romanticismo nel Mezzogiorno: Domenico Mauro, Gaetano Cingari, Esi, Napoli 1965;
San Adriano, Domenico Cassiano, Marco Editore Lungro 1999;
Storia degli abusi feudali, Davide Winspeare, ristampa anastatica, Ed. Forni Bologna 1883.



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sabato 24 marzo 2018

Gjitonia: quel cerchio magico

Gjitonia: quel cerchio magico

Un articolo scritto da Anna sul giornale scolastico qualche anno fa.
E’ una scena del Mediterraneo: un tardo pomeriggio in una stradina di una gjitonia di San Basile. Anni ’80 del secolo scorso. La comunità nella provincia di Cosenza è popolata dai discendenti dei profughi del XV secolo provenienti dall’Albania.
La “gjitonia” è il vicinato, nella parola c’è la radice gji- che compare in parente, golfo, petto, seno, universo, tutto.
Si differenzia dai vicinati dei paesi calabresi dei dintorni perché in essa le case seguono linee curve, non hanno spigoli “vivi”, sono disposte in forma concentrica con aperture rivolte verso uno slargo, una piazzetta.
In questo spazio comune e condiviso i gjitonë-vicini si riuniscono, conversano: è in realtà il salotto comune all’aperto, ci sono spesso scaloni, gradini, lastre di pietra-divani, sedie sbilenche impagliate, dove trovano posto anche i passanti.
I vicini sono legati da un patto sacrale: sono più importanti dei parenti, sono “specchi” reciproci, dice un proverbio; un tempo fra di loro si sceglievano le spose e gli sposi, non si andava oltre per formare una nuova famiglia.
I confini della gjitonia non sono solo spaziali ma investono tutti i sensi: essa finisce dove i bambini non sentono più la voce della madre che li chiama e l’olfatto non avverte più i noti profumi della cucina.
Nella gjitonia si vivevano momenti di socializzazione e di trasmissione di saperi, spesso femminili: si conversava di tutto, si raccontavano favole, aneddoti, storielle, fatti del passato, sempre in arbërisht (italo-albanese).
I vecchi erano rispettati, erano le biblioteche della comunità, non c’erano libri, l’oralità regnava e descriveva la cultura antica albanese, l’albanese è una lingua indo-europea ma distinta per taluni aspetti dalle altre.
Chi si fermava a chiacchierare doveva avere molto tempo a disposizione, occorreva rispettare dei rituali, salutare secondo formule canoniche e poi si proseguiva. Non era possibile cavarsela con un “buongiorno” o “buonasera”, bisognava rallentare e dire: “Che fate? State al fresco?” attendere la risposta-spiegazione seppur breve: “Dove stai andando?” alla fine le signore del vicinato auguravano: “Ec me Shin Merin” (Vai con Santa Maria cioè ‘ti accompagni la Madonna’).
I lavori nella gjitonia erano semplici occasioni per tenere occupate le mani, concentrarsi parzialmente su un oggetto, mentre la lingua, il pensiero viaggiavano altrove. Il tempo era sospeso, tutto era statico, nulla poteva interrompere bruscamente quell’equilibrio di corpi e di anime, il flusso di immagini e voci. Ognuna era collocata nella giusta posizione, nel cerchio, gli occhi concentrati sul grano da vagliare, mentre fluivano le generazioni, le radici della parentela, … le madri, le figlie, le nonne, le zie, le cugine, le vicine.
La gjitonia era l’utero, lo spazio femminile che non si attraversava solamente ma si viveva: luogo magnetico dell’anima.
Si filava la lana, si vagliava il grano … ciò che gli uomini portavano dalla campagna veniva trasformato dalle donne: il loro tocco ‘comunitario’ dava altro valore al grano, alla lana e nel valore c’era la conoscenza, la saggezza femminile accumulata in centinaia di anni.
Per questo motivo le scene nella gjitonia sembravano ferme, istanti gravidi di secoli, fotogrammi dove le immagini erano impastate di tempo, eternità. Il mondo era lì, il passato era lì: l’ordine immutabile, non c’erano alternative a quell’equilibrio, a quel cerchio, tutto ritornava da madre in figlia. Le anziane che morivano cedevano solamente il loro posto ad un’altra, non c’era spazio per la morte e la paura: era “naturale” morire e invecchiare. Nulla si poteva e si doveva fare per arrestare quel ciclo.
C’era serenità nella povertà, cultura nell’analfabetismo, orgoglio nella miseria.
Io posso considerarmi una testimone fortunata che ha avuto il privilegio di vedere brandelli di quel mondo ora scomparso per sempre, quelle scene che non ritorneranno mai più, perché è scomparsa quella umanità.
L’incontro con mio nonno e i suoi amici, i vicini di casa del Pllaso mi hanno fatto respirare l’oriente.
Ora ritornando con mio padre durante le feste e le processioni a San Basile, vedo che le gjitonie sono vuote, le porte sono chiuse e così le finestre e i balconi. Anche se rallento il passo e la voglia di sedermi in quel cerchio magico ha il sopravvento su di me, devo accontentarmi di pochi e sbiaditi ricordi.
In un batter di ciglia, così devo considerare la mia vita, è sparita una civiltà, un modo di vivere.
Vivere era una manifestazione della comunità, non una prerogativa dei singoli: nascere, battezzarsi, sposarsi, morire non erano fatti privati ma collettivi. Si sentiva il calore della comunità sul collo e il sacro era a portata di mano, le donne nel cerchio dialogavano davanti al grano che poi diventava il pane non solo eucaristico.
E questo senso di sacro io l’avverto ancora, il passo cerca di afferrare il ricordo attraverso la lentezza. Il silenzio, l’aria tiepida del Mediterraneo, la primavera, le case vuote che sembrano chiese, piccole ed umili, più umane nella loro semplicità ora mi amplificano il ricordo, popolano di umanità quel percorso.
Ma cosa è rimasto di quel mondo… squilla il telefonino, ecco un nuovo messaggio per me, è Roberta: Dv 6? Ke fai? Ftt sentire…è tt il giorno ke t cerco tvb.
Di quel mondo resta la voglia di stare insieme, di parlare, … senza fretta, di ascoltare. Porsi in ascolto e fare comunità è lì che albergano la divinità e il sacro: basta volerlo.

Trebisacce-San Basile, 2 aprile 2006
Anna M L Bellizzi, IV B ginnasiale

venerdì 23 marzo 2018

Insediamenti albanesi nella valle del Crati di Italo Sarro




Italo Costante Fortino Professore Università di Napoli L'Orientale


1.  Il volume Albanesi nel Ducato di S. Marco (Vol. I), che si inserisce nel tema più ampio degli Insediamenti albanesi nella valle del Crati è frutto di una approfondita ricerca d’archivio che l’Autore, Prof. Italo Sarro, arbёresh di S. Giacomo di Cerzeto (CS), ha condotto con passione e professionalità negli Archivi Vaticani, nell’Archivio di Stato di Napoli, di Cosenza, della Diocesi di S. Marco, in quello della famiglia Selvaggi di S. Marco e nell’Archivio della Corona di Barcellona (Spagna). Pur basandosi su una solida bibliografia, l’Autore ha preferito percorrere il tracciato inedito, apportando un notevole contributo di originalità alla ricostruzione della storia “vera”, ossia della storia documentata con certezza e argomentata con acutezza, dell’emigrazione albanese in Italia tra XV e XVIII secolo, e in particolare di quella insediatasi, con la benevolenza dell’Imperatore e dei Principi, nella zona della valle del Crati. E’ stato più volte scritto che gli Albanesi emigrati nel Regno di Napoli degli Aragonesi abbiano scelto di stanziarsi in zone che rispecchiassero il paesaggio morfologico delle zone d’origine dell’Albania.  Non è proprio così. Infatti il Prof. Sarro in questo libro ci dimostra che si è trattato di flussi migratori di piccoli gruppi, la cui sistemazione avveniva nelle zone dove era necessario ripopolare precedenti insediamenti o dove necessitava forza lavoro. Infatti il Principe Pietro Antonio Sanseverino, in ossequio alla linea ufficiale dell’Impero, adottò “la pratica dell’accoglienza” verso gli immigrati in quanto questi rappresentavano un arricchimento di potenzialità umana ed economica. Il Sarro si pone di fronte al documento, edito e inedito, con l’atteggiamento di chi vuole capire e interpretare il messaggio, inquadrato nel tempo e nello spazio, nel contesto culturale, politico ed economico dell’epoca, sempre attento a scandagliare eventuali strumentalizzazioni che si siano potute formalizzare anche negli stessi documenti. L’Appendice documentaria, quindi, è a fondamento di tutta la trattazione e fornisce al lettore uno specimen utilissimo per ripercorrere il processo storico in forma diretta e con piena consapevolezza. La sensazione che il lettore ha, quando si trova di fronte al documento, è quella di chi è coinvolto in prima persona, intento a scoprire le relazioni che guidano il panorama di vicende che hanno determinato lo svolgersi della storia umana di una popolazione. Le “Capitolazioni”, poi, di S. Giacomo, Cerzeto, S. Sofia, Pedalati, danno senso alla formalizzazione della presenza degli immigrati nei vari Ducati, considerati come comunità a cui si richiedevano precisi doveri, a fronte del riconoscimento di alcuni limitati diritti: una contrattazione che, per quanto criticabile in relazione agli squilibri contenuti a svantaggio degli immigrati – almeno visti con i nostri parametri – garantiva, tuttavia, uno stato giuridico visto come un buon punto di riferimento.

2. L’Archivio Sanseverino di Bisignano, nella ricostruzione di Donsì Gentile, dà l’opportunità al Sarro di inquadrare con la dovuta attenzione i feudi e i suffeudi, i casali e le competenze giurisdizionali, della famiglia Sanseverino, che nel XV secolo era titolare del Principato di Bisignano e del Ducato di S. Marco.  Il quadro che ne viene fuori è estremamente interessante in quanto ci rende edotti sulla titolarità dei feudi, sull’estensione dei terreni e sulla concessione delle competenze  giudiziarie, perlopiù appannaggio del Principe. Per comprendere pienamente fatti e misfatti, soprattutto a cavallo tra XVI e XVII secolo, quando il Principe di Bisignano nella lotta degli Aragonesi contro le pretese francesi si schierò con questi ultimi perdendo il Principato, il
Sarro ha puntualizzato il passaggio dell’esercizio del potere dalle mani del Principe a quelle del Vescovo.  Ciò, ad esempio, aiuta a rendere chiarezza della presenza del vescovo di Bisignano che, in assenza del Principe, assunse il potere di concedere i capitolati, o meglio i contratti, agli albanesi venuti dall’Albania e accolti nel Ducato di S. Marco. L’affinità dell’esercizio del potere nell’ambito feudale, tra Principi e Baroni da un lato e Abati e Vescovi dall’altro, va tenuta presente anche nei versamenti, da parte dei sudditi, dei tributi che rappresentavano la vera ricchezza all’epoca. E’ interessante, pertanto, ricordare che alcuni suffeudi, per antica concessione erano tenuti a versare i tributi, non solo al Principe, quale “feudal servitio”, ma anche a Monasteri o a Diocesi. E’ il caso di S. Giacomo e Mongrassano che dovevano i tributi all’Abbazia cistercense di La Matina; e di S. Giorgio, poi Cavallerizzo, che versava contributi alla Mensa vescovile di S. Marco. Da questo punto di vista, ogni suffeudo, o parte di esso, terre o casali, erano considerati beni immobili che diventavano oggetto di compravendita a seconda delle necessità e dei benefici economici che se ne ricavavano.  Pertanto con l’aumentare della ricchezza di un suffeudo, dovuto alle maggiori entrate delle tasse proporzionate al numero dei “fuochi”, ossia delle famiglie residenti, aumentava la stima del valore di vendita del suffeudo stesso. Il Principe, sulla base di questa logica commerciale, favoriva la crescita della popolazione in ogni casale, perché in tal modo stimolava le entrate e accresceva il valore dei beni immobili. Il Principe di Bisignano e Barone di S. Marco, Pietro Antonio Sanseverino, di fronte allo spopolamento di alcuni casali, dovuto a carestia e terremoti, guardò con estremo interesse all’arrivo di esuli che, lasciata l’Albania per ragioni politiche, religiose ed economiche, cercavano rifugio in Calabria.

Il problema dell’accoglienza degli Albanesi rappresentò una vera preoccupazione dello stesso Imperatore, Carlo V, il quale, come si può leggere nei documenti dell’Archivio della Corona di Barcellona, opportunamente consultato dal Sarro, nel 1519 raccomandava ai suoi ufficiale di trattare con umanità i profughi: 

Recomandaciòn que hace el Monarca a todos sus officiale para que se trade umanamente a los greco, albanenses y esclavos que, huyendo de la persecuciòn turca, se han establecido ec Italia, donde padecen todo género de privationes y miserias. Lazàro Mathes y sus hijos son nombrados procuradores de tale nucleo de gente expadriada1.

I Principi fecero propria l’indicazione imperiale, riteniamo anche per senso di umanità, ma soprattutto per il risvolto economico che ne scaturiva a loro vantaggio, in quanto, grazie al lavoro dei nuovi arrivati, i casali abbandonati o in netta regressione diventavano  casali popolati, contrattualmente appetibili, mentre altri venivano creati ex-novo, diventando tutti casali produttivi e, dunque, soggetti alle dovute tassazioni, di cui beneficiavano i Principi, gli Abati e i Vescovi. 

Il legame di solidarietà tra il feudatario e la comunità straniera fu rafforzato da due disposizioni del 24 ottobre 1522 e 1 dicembre 1524, che comandavano a tutti gli ufficiali di non angariare i vassalli della Diocesi di S. Marco e gli uomini di Mongrassano e S. Domenica2.

Doppia la convenienza per i Baroni e i Principi: da un lato le entrate dirette anno per anno attraverso la tassazione, dall’altra gli introiti straordinari in caso di vendita di casali o interi feudi.
                                                 1 Italo Sarro, Insediamenti albanesi nella valle del Crati, Nuova Santelli, Cosenza 2010, p. 24, nota 25 2 ASN, Regia Camera della Sommaria, Serie Diversi, II numerazione, Vol. 72, foll. 207 – 208, citato da A. Barone – A. Savaglio – F. Barone, Albanesi di Calabria, Capitoli, Grazie ed Immunità, Galsibaris, Montalto Uffugo 2000, p. 108.
Sempre sulla base della documentazione spagnola, il Sarro ci ricorda anche che i flussi migratori dall’Albania in Calabria non si esaurirono con la fine del XV secolo, ma continuarono nei primi decennio del XVI, sotto forma di piccoli gruppi che venivano accolti e sistemati o nei vecchi centri abitati o in nuovi destinati appositamente per gli immigrati.  E’ bene anche sottolineare che si verificò quasi un richiamo di profughi albanesi, incentivato da agevolazioni, che risultavano molto utili anche ad affrontare le difficoltà del loro primo insediamento nelle nuove terre:

franquicias e inmunidades concedidas en dichos casos, oppure segùn las condiciones establecidas en privilegios anteriores3.

Gli immigrati albanesi, di conseguenza, dovevano essere accolti con la raccomandata umanità, ed erano sistemati in zone e casali scelti dal Principe, dove si inserivano nel processo produttivo del posto, garantendosi così il proprio sostentamento e le dovute entrate al Principato.

3. Il libro di Sarro ci presenta, quindi, un quadro bene informato delle singole comunità arbёreshe della Valle del Crati gravitanti nel Ducato di S. Marco: S. Giacomo, Cerzeto, Mongrassano, Cavallerizzo, Santa Caterina, Cervicati, Serra Di Leo. Alcune di queste comunità, oggi, pur conservando la memoria e l’identità storica delle origini, hanno perso l’idioma originario portato dall’Albania (Mongrassano, Cervicati, Serra Di Leo), mentre tutte nel XVII secolo hanno abbandonato l’originario rito bizantino greco e sono passate a quello latino. Il taglio, dato dall’Autore all’impostazione del volume, è quello giuridico economico, dettato dalla documentazione, reperita nei fondi dei vari archivi, che vede la luce per la prima volta in questa pubblicazione.  La storia che ci viene narrata, pertanto, ci illustra con abbondanza di particolari vicende relative alla proprietà del feudo e dei suffeudi, ai vari passaggi di mano dei casali da una gestione all’altra. Scorrono i nomi dei Principi Sanseverino, delle famiglie Curato di Cosenza, dei Ferrante Frassìa, dei Cavalcante, dei De Miranda, dei Dattilo, dei Guzzolini, per arrivare al Marchese Spinelli. Territori che vengono dati in affitto, altri in proprietà, casali, con estensioni territoriali ristretti o molto più ampi, che vengono venduti per fare cassa nei momenti di crisi economica o per la scarsezza degli introiti delle tasse.  In breve sintesi si può affermare che ci troviamo di fronte a un gioco finanziario -  acquisti o cessioni di riscossione di gabelle, servizi feudali, giurisdizioni -  simile a quello immobiliare di oggi e a quello delle agenzie di riscossione dei tributi, dove tutto è visto sotto l’ottica delle entrate e uscite.  Gli albanesi immigrati e sistemati nelle suddette comunità forse poco conto davano ai vari passaggi; piuttosto erano assiduamente preoccupati per le varie forme di tassazione e tributi che dovevano versare ora al Principe, ora agli Abati o ai Vescovi.

4. Dalle Capitolazioni e dalle Platee si possono trarre molti dati interessanti che concorrono alla ricostruzione del quadro storico economico.

Origini

Prima di dare uno sguardo a queste fonti, appare utile un breve accenno alla primissima fase di insediamento degli albanesi nei villaggi o casali che sorgevano nel Ducato di S. Marco appartenente al Principato di Bisignano. 
                                                 3 Italo Sarro, op. cit., p. 26.
Un antico casale risalente al XII secolo detto Carrara in cui sorgeva la chiesa dedicata a S. Giacomo tra XV e XVI secolo, mentre andava spopolandosi per ragioni politico economiche o per ragioni sanitarie che interessarono tutto il Principato dei Sanseverino di Bisignano, ebbe la fortuna di vedere arrivare immigrati provenienti dall’Albania che, in breve tempo, ricrearono una consistente ricchezza di cui beneficiarono il Monastero di S. Maria della Matina e il Principato dei Sanseverino, proprietari del casale stesso. Il primo nucleo di albanesi ripopolò la zona che gravitava nei dintorni della Chiesa Sancti Jacobi de Carrara: l’attuale S. Giacomo. Nel 1555 il casale di S. Giacomo era formato da 18 famiglie (fuochi) per un totale di 85 abitanti. Un altro flusso di gente albanese andò a ripopolare, invece, il territorio attorno alle chiese, dette di Quercito, da cui Cerzeto, casale già esistente nel XIII secolo.  Era il 1518 quando questa popolazione fu accolta dal Principe di Bisignano, Pietro Antonio Sanseverino, e sistemata nella zona di Quercito, detta La Chiana, da cui la denominazione Qana, ancora oggi viva nella lingua albanese per indicare Cerzeto.  Questo fu l’ultimo gruppo di albanesi che andò a sistemarsi nel feudo di S. Marco.  Da tenere presente anche la consistenza numerica degli abitanti: nel 1543 la popolazione di Cerzeto ammontava a 26 famiglie (fuochi) per un’equivalente di 130 persone. Interessante anche notare le relazioni di parentela della comunità: un terzo di questa popolazione portava lo stesso cognome; il che avvalora l’ipotesi che gli immigrati si siano mossi in gruppi familiari legati da vincoli di parentela, facenti capo, pertanto, ad uno stesso ceppo. Poco prima, tra il 1508 e il 1518, altri flussi migratori di albanesi avevano trovato rifugio e ospitalità a Monscrasanus, poi Mongrassano, un casale anche questo già esistente nel XII secolo. Gli ordini del Principe di accogliere benevolmente gli immigrati, unitamente alla concessione di agevolazioni fiscali, venivano eseguiti con una certa fedeltà e contribuivano a risollevare le sorti di molte zone altrimenti destinate allo spopolamento.  Il casale di S. Giorgio, già abitato secoli prima e legato tanto all’Abbazia di La Matina dei Cistercensi quanto alla città di S. Marco, nel 1400 subiva un lento processo di spopolamento, che poco prima del 1518 fu arrestato dal Principe dei Sanseverino di Bisignano con l’accoglienza e la sistemazione in loco di albanesi che premevano e chiedevano asilo. I nuovi arrivati, sistemati attorno alla Chiesa di S. Giorgio, sono noti come abitanti di “Cavallarozzo”, poi Cavallerizzo. Nel 1543 il casale era formato da 23 famiglie, circa 100 abitanti. Santa Caterina è un casale che, pur appartenendo al Ducato di Malvito e non a quello di S. Marco, trova ospitalità in questo volume per avere avuto nel 1600 la stessa amministrazione di Mongrassano e Cavallerizzo. Come gli altri casali, anche questo ha origini medievali (Piczillum e Pittuleum) che nella prima metà del 1500 viene ripopolato da famiglie albanesi che vivranno accanto a famiglie italiane nello stesso territorio detto Pizzileo o Santa Caterina. Dal censimento del 1543 risultano a S. Caterina 18 famiglie con 58 abitanti, che scendono a 13 famiglie nel 1561, ma saliranno a 29 nel 1595, a 38 nel 1669 e a 58 nel 1732. Ancora una volta lo spopolamento del villaggio medievale di Cervicati offre al Principe di Bisignano l’opportunità di ripopolarlo con gente albanese che chiedeva rifugio e ospitalità. Come gli immigrati che avevano trovato alloggio a Cavallerizzo, anche gli abitanti di Cervicati si dovettero spostare per il lavoro giornaliero, quali “bracciali”, nelle terre di Cocchiato , di Colombra e di S. Lorenzo. Il villaggio di Santa Venere, già esistente nel XII secolo,  successivamente cambiò denominazione divenendo Serra di Leo o Serra D’Elia, e dopo la pestilenza del 1464, che interessò la zona e più estesamente la Calabria settentrionale, ritornò alla ribalta per la presenza di ceppi familiari albanesi. Nel 1521 Serra di Leo contava 14 famiglie albanesi che, dopo un periodo di calo dovuto a spostamenti in altri casali più redditizi, divennero 16 con 75 abitanti. 
I suddetti casali, come sostiene il Sarro con abbondanza di particolari, seguirono la politica del Principe di Bisignano, oltre che del Duca di S. Marco, che si concretizzava in concessioni di benefici tendenti a ridurre la pressione fiscale, ma al contempo tendenti ad accrescere la consistenza della popolazione residente per aumentare la quotazione e la stima del valore di ogni casale, in quanto le entrate per il Principato, il Ducato, l’Abbazia e il Vescovato erano direttamente proporzionali all’aumento del numero delle famiglie residenti.

Contratti

Dopo questo quadro sintetico, ma necessario per avere un punto di riferimento adeguato, si rende utile uno sguardo alle Capitolazioni per precisare lo stato giuridico-economico della popolazione di recente insediamento nel Ducato di S. Marco. Un dato incerto rimane: se, come afferma il Sarro, i flussi di immigrati nei casali del Ducato di S. Marco provenissero direttamente dagli sbarchi sulle rive del golfo di Sibari, oppure  da altre zone dove gli albanesi avevano sostato in precedenza. Le Capitolazioni, ovvero i Contratti che regolarono i rapporti tra la gente albanese e il Principato di Bisignano sono contenuti nella Platea del 1508 del Vescovo di Bisignano Francesco Piccolomini de Aragona, il quale gestì il Principato negli anni di assenza dei Sanseverino. Il Contratto è rivolto nello specifico agli albanesi del Casale di S. Giacomo, ma ricalca il Contratto concesso nel 1471 agli albanesi di S. Sofia.  Quale contropartita del diritto di risiedere stabilmente in una zona prestabilita, gli albanesi dovevano rispondere con contribuzioni destinate sia alla chiesa che al principato, consistenti in retribuzioni in denaro (casalinaggio, dogana, decime) e in retribuzioni in natura a favore del clero (animali e prodotti dell’allevamento). Erano fissate date e quantità precise per i normali versamenti, mentre in alcune circostanze festive di rilievo (Natale, Pasqua e Assunzione) erano pretese donazioni più generose.  Tutta la produzione, in pratica, sia quella agricola che quella derivata dagli allevamenti era tassata al dieci per cento, tassa che si andava ad aggiungere a quella annuale della dogana. Il Contratto concedeva la libera circolazione agli immigrati albanesi all’interno del feudo, ma con una clausola restrittiva che prevedeva, in caso di definitivo trasferimento, l’incameramento da parte del feudatario dei beni posseduti (case, terreni).  La clausola voleva essere un mezzo a favore della residenzialità della popolazione e un deterrente contro il fenomeno dell’evasione fiscale. Da quanto si può dedurre da alcune disposizioni contenute nel Contratto, gli albanesi per alleggerire il carico fiscale non esitavano ad abbandonare le abitazioni (tuguria) e le terre, se il Vescovo di Bisignano stabilì che si prendesse nota degli eventuali abbandoni di terreni e abitazioni date in vendita, o eventuali scomposizioni dei nuclei familiari, per non pagare il casalinaggio. In altri termini il feudatario intendeva regolare e ottimizzare la produzione, ponendo le basi concrete perché fosse favorita l’attività agricola per una sostanziale crescita della produzione (lino, canapa, cotone, grano, segale, avena, orzo, lupini, ceci, cicerchie e fave). A fronte del Contratto concesso dal Vescovo Piccolomini, il Principe di Bisignano, ritornato nel pieno potere del Principato, concedeva nel 1518 un Contratto più avanzato nel riconoscimento dei diritti ai nuovi abitanti di Cerzeto, per creare un processo di sviluppo economico più dinamico e libertario. Infatti concedeva il diritto al pascolo sul terreno demaniale, per favorire lo sviluppo dell’allevamento che superasse i limiti dell’ambiente e delle necessità familiari. Si passava da uno stato economico legato alla sussistenza a uno stato che prevedeva una forma di commercio e di arricchimento. Altro punto innovativo è il riconoscimento agli albanesi del diritto di muoversi e di spostarsi di residenza all’interno del feudo senza alcuna restrizione. Si innescava un processo di
concorrenza, secondo cui gli albanesi potevano trasferirsi in territori dove i suffeudatari offrissero più degna ospitalità e maggiori vantaggi economici. Il Principe si dimostrava più liberale del Vescovo e confermava la sua politica lungimirante come dimostra la flessibilità concessa alle scadenze di pagamento delle tasse, in relazione anche delle possibilità economiche dei contribuenti.  Il Principe introduceva il principio della concorrenza, che avrebbe potuto scatenare un processo di sviluppo, il principio del merito che diventava una molla per il progresso e non ultimo il diritto della libera circolazione che faceva crescere la responsabilità negli individui e nella comunità.                Platea de La Matina

L’Abbazia “La Matina” nel Ducato di S. Marco contava terreni nei casali albanesi di Mongrassano, Cavallerizzo, S. Giacomo e Cerzeto.  La prima Platea dell’Abbazia “La Matina” risale al 1653 e riporta dati di interesse anche per gli albanesi del Ducato, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto economico. Pochi cenni valgano per avere un’idea delle coltivazioni principali dei casali albanesi: per la produzione della seta era indispensabile la coltivazione dei gelsi, molto diffusa in tutta la zona, mentre altri alberi utili per il sostentamento erano gli ulivi, i castagni, le querce e non ultimi i fichi e la vite. La coltivazione del grano non era molto sviluppata per via del terreno poco adatto, per cui in funzione della panificazione si ricorreva a farine più scadenti di orzo e segale, mentre nei momenti più critici, gli strati sociali più poveri dovettero ricorrere alla farina di castagne e di ghiande, generalmente usate come alimento per i maiali.  Il Sarro si sofferma, nella descrizione della Platea, a sottolineare anche le modalità delle costruzioni per abitazione che consistevano in 1) kalive, capanne a due spioventi con legni di castagno o di quercia, che sorgevano in montagna o in campagna quali rifugi di emergenza e per deposito degli strumenti di lavoro; in 2) pagliari, le cui pareti potevano essere fatte o con lunghe verghe di castagno intrecciate attorno a paletti, oppure con veri muretti fatti con blocchetti rettangolari di terra e paglia impastata e ben essiccata; e in 3) costruzioni in muratura fatta di calce e arena, destinate agli strati sociali più benestanti. Altri dati interessanti, contenuti nella seconda Platea dell’Abbazia risalente al 1745, riguardano le imposte cui dovevano fare fronte gli abitanti del Ducato. Basti ricordare che ogni famiglia, oltre al casalinaggio (tassa sulla casa), doveva dare all’Abbazia una gallina all’anno per la concessione dell’allevamento aviario, mentre per gli animali di taglia più grande era stata introdotta la decima. Il tenore fiscale era estremamente rigido, nel senso che anche in assenza di guadagno nell’allevamento (casi di morìa), il versamento del dovuto non conosceva attenuanti. Accanto alla tassazione individuale, l’Abbazia riscuoteva una tassa collettiva (6 ducati) per la concessione a tutta la comunità di un appezzamento di castagneto; e pretendeva, inoltre, una giornata di lavoro all’anno per famiglia per le proprie esigenze di servizio. Sempre a proposito della tassazione, va ancora sottolineato che i casali, per la presenza nel proprio interno di proprietà appartenenti a due autorità, quella ducale e quella religiosa, dovevano versare due “casalinaggi”, una ducale (32 grani all’anno) e l’altra abbaziale (28 grani).  Qualche altro dato sociologico che si può trarre dalla Platea riguarda la composizione dei nuclei familiari e l’onomastica. Per limitarci a S. Giacomo, segnaliamo l’elenco dei seguenti cognomi: Albanito, Barci, Belsito, Bennota, Bianco, Camo, Candreva, Caparello, Crivaro, Cubaro, Curto, Diodati, Fazio, Ferro, Golemme, Goletta, Grandinetto, Guerriero, Juliano, La Croce, Le Pera, Li Cursi, Li Donnici,, Mazzei, Musacchio, Oliverio, Paci, Petta, Pillola,, Pinnola, Puoci, Rizzo, Romana, Romano, Rotundo, Runca, Russo, Sarro, Smeriglio, Stamile, Talarico, Tocci.
Risulta, anche da questi pochi cenni, che il Sarro ha saputo individuare gli strumenti documentari più adatti per fornire tutti gli elementi necessari alla ricostruzione degli aspetti socio-economici delle comunità albanesi del Ducato di S. Marco anche nelle implicazioni e negli intrecci tra due esercizi di autorità, quella religiosa e quella laica.

5. Passaggio di rito

Altro argomento, molto specifico, che ha interessato tutte le comunità albanesi del Ducato di S. Marco è il passaggio nel XVII secolo dal rito bizantino, posseduto fin dalla venuta in Italia degli immigrati albanesi, al rito latino, che era quello in atto nel contesto del Ducato. La presentazione che ne fa il Sarro delle procedure di passaggio e delle motivazioni che sono state addotte danno spunto a riflessioni sul quadro generale del rapporto tra cultura dominante e cultura subalterna. I due terzi delle comunità arbёreshe di rito bizantino di tutto il Mezzogiorno d’Italia sono trasmigrati al rito latino nello stesso periodo (sec. XVII): Portocannone, Montecilfone, Campomarino, Ururi, Casalvecchio, Casalnuovo, Chieuti, Barile, Ginestra, Maschito, Cerzeto, Cavallerizzo, Cervicati, S. Martino di Finita, S. Giacomo di Cerzeto, Mongrassano, Serra di Leo, Rota Greca, S. Caterina Albanese, Falconara Albanese, S. Lorenzo del Vallo, Spezzano Albanese, Amato, Andali, Caraffa, Gizzeria, Marcedusa, Vena di Maida, Zangarona, Carosino, Faggiano, Fragagnano, Monteiasi, Montemesola, Monteparano, Roccaforzata, S. Crispieri, S. Giorgio Ionico, S. Marzano di S. Giuseppe, Galatina, S. Cristina Gela, Biancavilla, Bronte, S. Michele di Ganzaria, S. Angelo Muxaro.  In sintesi le comunità passate al rito latino sono 65, mentre quelle che hanno resistito e ancora oggi mantengono il rito bizantino sono 26. Gli arbёreshё quando si stanziarono nel Regno di Napoli (sec. XV-XVI ) seguivano il rito bizantino ed erano in perfetta armonia con la chiesa latina di Roma, anche perché il Concilio di Firenze (1439) aveva sancito l’unione tra la Chiesa cattolica e quella ortodossa. In forza di ciò, tutte le comunità arbёreshe d’Italia da un punto di vista canonico, con l’accordo del Patriarca di Costantinopoli e del Papa di Roma, dipendevano dal Patriarcato di Ocrida (Macedonia) che nominava un metropolita con sede ad Agrigento, in Sicilia, e con giurisdizione sugli albanesi e greci di rito bizantino residenti in Italia. Al primo metropolita di Agrigento, Giacomo, successe Pafnuzio di Cipro, a questi Timoteo di Korça, e infine, l’ultimo, Acacio Casnesio, originario di Corfù.  Illuminanti rimangono i provvedimenti pontifici (Accepimus nuper) di Papa Leone X (1521) a tutela delle peculiarità del rito bizantino in Italia. Ma appena qualche decennio dopo, con le deliberazioni restrittive del Concilio di Trento (1563), si ebbero conseguenze gravissime che danneggiarono il rito bizantino: Papa Pio IV col documento Romanus Pontifex (1564) annullò il diritto riconosciuto  a Ocrida e Costantinopoli e sottopose le comunità arbёreshe di rito bizantino ai vescovi latini, con “la volontà di sopprimere o, almeno, di favorire l’estinzione per esaurimento del rito greco in Italia”4 come ribadito dal successore Papa Pio V nel documento pontificio Providentia Romani Pontificis (1566). Le deliberazioni del Concilio di Trento, attuati dai due succitati Papi, hanno aperto una falla che avrebbe latinizzato i due terzi delle comunità arbёreshe dell’Italia meridionale. I concili provinciali successivi, - basti citare solo quello di Benevento (1567) e quello di Bisignano (1571) - , interpretando con sospetto le usanze rituali bizantine, favorivano forme di latinizzazione all’interno del rito stesso. Nel 1742, poi, Papa Benedetto XIV esplicitando la tesi della superiorità del rito latino su tutti gli altri, col documento Etsi pastoralis collocava il rito bizantino in uno stato di inferiorità rispetto al rito latino. 
                                                 4 Vittorio Peri, Chiesa Romana e “Rito” Greco. G. A. Santoro e la Congregazione dei Greci (1566-1596), Paideia Editrice, Brescia, 1975, p. 54.
Emblematico rimane il caso di S. Giacomo, la cui parrocchia con la scomparsa del sacerdote di rito bizantino nel 1629 si vide inviato, dal Vescovo di Bisignano Mons. De Paula, un sacerdote latino. L’operazione fallì e si dovette ritornare al sacerdote bizantino, perché la popolazione in massa non seguì più le funzioni religiose che non le sentivano proprie.  La vicenda, tuttavia, fu ripresa successivamente, in maniera più sistematica e pressante, dal Vescovo e dal Barone, i quali con tutte le approvazioni papali e sotto formale richiesta di tutta la popolazione, nel 1634 traghettarono la parrocchia definitivamente al rito latino.   Forti sospetti rimangono relativamente alla richiesta unanime della popolazione di passaggio al rito latino, mentre appena cinque anni prima la stessa popolazione in massa aveva disertato le funzioni di rito latino. 

6. Osservazioni Questa ampia presentazione trova giustificazione nel desiderio di illustrare pienamente un’opera che val la pena di leggere per i suoi contenuti originali e per alcuni dati e considerazioni che mettono ordine in una disciplina che, relativamente al mondo arbёresh, non è stata del tutto onorata sotto il profilo del rigore scientifico. Il ricorso alla fonte documentaria di prima mano rimane la garanzia più valida della ricerca del Sarro, così come la lettura critica delle opere già edite, sia pure qualche volta sotto forma di esclusione dalla semplice menzione,  porta un contributo di chiarezza che orienta il lettore, spesso privo degli strumenti per tale operazione.  Questa prima ricostruzione del Sarro, cui seguiranno altri volumi che abbracceranno le altre comunità della Valle del Crati, è caratterizzata da una notevole ricchezza di dati documentari di primaria e secondaria importanza, ma tutti utilizzati dall’Autore e inseriti nella trattazione nel disegno della ricostruzione del quadro storico in oggetto. La ricchezza dei dati offerti, essendo la prima volta che molti di essi vedono la luce, trova una sua giustificazione nel progetto di mettere a frutto tutti i contenuti dei documenti, anche se talora quest’operazione mette a prova il lettore, indotto a seguire tutti i rivoli attraverso i quali, poi, si ricompone il fiume nella sua pienezza. La tipologia della documentazione rintracciata dal Sarro, ha, poi, condizionato anche il taglio dell’impostazione generale dell’opera, dove prevale l’elemento economico, il dato fiscale, l’interesse commerciale, lo stato giuridico, rispetto a quello culturale, letterario e linguistico. La competenza e la tenacia con cui il Sarro persegue il documento, sia in Italia che all’estero, ci conforta e ci esalta perché siamo sicuri che ci offrirà, fra breve, altra ed originale documentazione storica di primissima mano che riguarderà non solo le altre comunità della Valle del Crati, ma di tutto il Mezzogiorno d’Italia. Già questo primo volume si pone come contributo di alto profilo,  atto a risistemare le impostazioni storiche tradizionali finora note.



Fonte: www. arbitalia.it

Foto: www.calabriameteo.net