mercoledì 18 aprile 2018

AMICA VERITAS SED MAGIS AMICUS AMICUS

AMICA VERITAS SED MAGIS AMICUS AMICUS di Nando Elmo


Per quanti hanno letto o leggeranno il mio breve saggio “Chiamatemi arbëresh” argomento qui più distesamente un tema lì appena accennato – per evitare fraintendimenti.


Una volta, ai tempi della Metafisica imperante, nel tempo della violenza religiosa e politica quando le religioni e i monarchi e i professori possedevano la “Verità” e creavano le eresie e i nemici dello stato e gli ignoranti (ma questo tempo non è finito, il mondo è pieno di dittatori, di papi, di professori) valeva il detto, attribuito da Ammonio ad Aristotele: “Amicus Plato sed magis amica veritas”, in altre parole:“più dell’amico Platone vale la “verità” - frase di una violenza metafisica inaudita. La “Verità” vale più dei gasati di Auschwitz, la “Verità” vale più degli sgozzati dell’Isis. Della “Verità, nelle sue varie declinazioni, si riempiono la bocca coloro che non ne possiedono alcuna, solo la sua ombra, nonostante la dichiarazione del solito Nietzsche: “Dio è morto”, che significa solo che la Metafisica è finita, che sono finiti i “valori”, che è finito l’”io” che li sostiene con la volontà di potenza, che è finito ogni fondamento, che è finita l’imperatività d’ogni grammatica. A proposito di questa il solito Nietzsche nel Crepuscolo degli idoli – la “ragione” nella filosofia 5- (attenzione: “degli idoli”) scrive: “La “ragione” nel linguaggio: oh che vecchia donnaccia ingannatrice. Temo che non ci libereremo più di Dio perché crediamo ancora alla grammatica …” ( mi pare di sentire Paolo di Tarso, Cor. I, 1,20: οὐχὶ ἐμώρανεν ὁ θεὸς τὴν σοφίαν τοῦ κόσμου τούτου; - oddio, nella mia prosa frattale che si perde per li rami sto deviando dalla retta via: finirà il mio discorso per non avere senso; ma torno al ramo centrale sicché nessuno si perda).
Oggi la formula pseudo aristotelica non ha più fortuna tra i “pensatori pensanti” e sembra, in tempi di “democrazia, d’ironia e di contingenza”, per usare la formula del filosofo americano Rorty, che valga la sua inversa: “Amica veritas sed magis amicus amicus”, cioè “sono amico della “verità” – ci mancherebbe - ma sono più amico degli amici” – cioè: sono disposto ad abbandonare una verità pur di salvare un amico.
Perché sono amico della “verità”? Perché “sono qui” per cercarla (in modo frattale vagando per li rami), giacché non la possiedo. E siccome non si lascia essa possedere, sono nella condizione dell’Eros platonico, che essendo egli “im/eros, cioè desiderio, è sempre in stato di carenza. E potrebbe egli una volta vestire i panni della Sposa del Cantico dei Cantici ed esclamare: “Quaesivi et non invenii”; o dell’innamorato della Titina della famosa canzone: “la cerco e non la trovo, chissà dove sarà”, o di Zazà, che, anche lei, persa nella festa di S. Gennaro – che fa miracoli – comm’aggià fa pe te truva? I’ senza te nun pozzo sta..
D’altra parte anche Aristotele, se mai sia stato autore della formuletta dell’“Amicus Plato…” (Egli, ipse dixit, smonta, come amico della “Verità”, parecchie tesi del Maestro, che con le sue aporie era meno violento del discepolo), nella seconda parte del Primo libro della Metafisica afferma che ci sono due tipi di “verità”, quelle facili (tipo le constatazioni delle semplici presenze) e quelle difficili che richiedono il possesso del tutto per essere espresse. L’uomo è capace delle prime ma incapace delle seconde. Anche Socrate a suo tempo affermava che siamo capaci solo di “opinioni”, ma che tra le opinioni ci sono quelle “rese vere da un ragionamento”, e che prendono abusivamente quindi il valore di “verità”. Socrate parla nel “Teeteto (202 c) ”di una “δόξαν ἀληθῆ μετὰ λόγου”. Lo cito in greco, come sempre, perché diffido delle traduzioni.
Ma, se posso permettermi, “δόξαν ἀληθῆ/opinione vera” ha tutta l’aria, di una contradictio in adiecto, (un giochetto di Socrate, per accontentare i suoi interlocutori, che pretendono una verità, quale che sia?), perché se l’opinione non è verità e la verità non è opinione, che senso ha un’“opinione vera”? – pare la Fides et ratio, dove alla Fides non bastano, dicono i professori, solo les raisons du cœur.
L’opinione, dunque, anche se è sostenuta da un ragionamento inoppugnabile, sempre opinione rimane. E noi la “Verità” continuiamo a inseguirla entrando in quella ὰλή/θεἰα che, sempre Socrate, definisce “divina erranza” (erranza nei due sensi), “erranza” che è poi la filo/sofia che abbandona le imposizioni della logica per aprirsi all’eventualità dell’Essere, che implica “il sapere di non sapere” – l’importante, egli dice, ancora, è sempre farsi vuoti (ἐάντε κένος ᾖς, ἧττον ἔσῃ βαρὺς τοῖς συνοῦσι/ se invece ti manterrai vuoto, sarai meno pesante per chi ti sta vicino), sempre farsi liberi per essa dalle posizioni acquisite – e questo per “non dare l’impressione di saper quel che non si sa” – soprattutto affidandosi agli eidola. Anche perché, ancora, se quell’opinione retta è la nostra “conoscenza”, dobbiamo fare i conti poi con la conoscenza-come-strumento che a detta di Hegel deforma la cosa da conoscere. E questo fa la pari con il detto di un filosofo matematico fisico chimico elettrotecnico e teologo ortodosso dei nostri tempi, il santo sacerdote russo, sposato con figli, Florenskij, ucciso dalla ferocia della “verità” staliniana. Egli dice che Cristo solo è consunstanziale alla Verità, e dunque la nostra verità non è tale perché non è quella di Cristo al quale non siamo consustanziali.
E ancora: “La verità piena è qualcosa di assoluto e dunque incompatibile con il mondo; per loro natura il mondo e l’uomo sono limitati, dunque recepiscono in modo limitato … (P. A. Florenskij: Bellezza e liturgia- Mondadori, 20109)”
Siamo dunque nudi e scalzi davanti alla “Verità” e affamati d’essa, come Eros/Imeros alla ricerca del Bene che è il Sommo Vero, l’Assoluto che riposa solo in sé, per sé. Cerchiamo la Verità con affanno ma non la troviamo perché, se la trovassimo, saremmo consustanziali ad essa, il che non sarà mai, finché “saremo qui” nella nostra prospetticità, parzialità, contingenza, in commercio, persi, tra enti contingenti.
Anche e soprattutto nelle scienze la “Verità” ha fatto il suo tempo. Nelle scienze una teoria “funziona o non funziona”, non è mai “vera”, entrando essa nel calcolo delle probabilità del suo funzionamento secondo le esigenze degli scienziati.
Che ne facciamo, dunque, della “Verità”? Di questo “strumento”, che ha acceso roghi, ha maledetto eretici, riempito Gulag e Lager, diviso amici, rendendo la Storia non solo un cumulo di macerie ma di porcherie inenarrabili che vanno sotto il nome di progresso?
Abitiamo la nostra contingenza e nella scelta tra “amicus” e “veritas” scegliamo, senza dubbio, l’amico – anche perché unico valore è la “persona” e poi: “vita brevis” - ed è sempre meglio lasciare eredità d’affetti.
Ora la verità diventa ancora più problematica quando la cerchiamo in uno scritto. Platone, sempre lui, dice che lo scritto assomiglia a una pittura, se la interroghi, essa non risponde. E dunque anche il mio scritto diventa un quadro di segni che, se interrogati, non sanno rispondere. E va bene per gli scritti di Platone che affronta argomenti da par suo, ma il mio scritto che è quello di uno che non sa scrivere, deviando sempre per excursus, non sapendo tenere la barra al centro, perdendosi tra Holzwege: che vorrà dire? A interrogarlo, il mio scritto, non sa rispondere e dunque la responsabilità del suo senso passa da me al lettore. Il mio scritto vorrà dire quello che il lettore, secondo la sua abilità di lettura, gli vorrà far dire. È il lettore che dà significato al testo – e quello esplicito e l’implicito. Non voglio con questo sottrarmi alle mie responsabilità, ma scrivendo mi affido sempre alla carità ermeneutica dei miei cinque lettori. Dei quali due hanno dato segni di vita, gli altri sono sempre distratti dalla festa di S. Gennaro – che pare faccia miracula
S. Gennaro come “linguaggio che fonda”. E se mi è lecito e se il lettore ha pazienza, vorrei ancora deviare verso la grammatica di Nietzsche più su richiamata. Essa si fonda come un Gestell, come direbbe Heidegger. Ossia come l’imposizione di un impianto tecnico provocatorio che l’uomo appronta per impossessarsi di Dio, ente tra gli enti, come fondamento (ricordate il Dio di Cartesio e il rifiuto di Pascal del Dieu des philosophes et des savantes? È questo Dio che Nietzsche dichiara morto). Con questa grammatica l’uomo non è più ospitato nel suo linguaggio (l’arbëresh, per esempio) ma ne è il padrone e fonda grammatiche pure e prescrittive per niente aperte all’Evento dell’Essere che è ohne warum, senza perché. La grammatica come strumento dei professori per stabilire assiologie e aventi diritto (penso alla “grammatica” del realismo socialista o del falso “del vero classico romano nazifascista”, e all’arte degenerata dei “non aventi diritto”. Qui davvero avviene quello che denunciava Gorgia: “ai nostri interlocutori offriamo parole non fatti”, “parole” e “fatti” non si coappartengono più – solo pura retorica, il “fatto” cioè non nasce con il suo linguaggio – l’arbëresh non nasce con il suo linguaggio ma viene sussunto da una grammatica, da una sintassi e da un codice eterodiretti – pensiamo anche alla “grammatica” dei “Cinque stelle”[1]). Ma qui il discorso si farebbe lunghissimo e allora lo tronco subito.
Perché tutta questa manfrina?
Perché pare che le opinioni, espresse nel mio scritto “Chiamatemi arbëresh”, stiano già per essere equivocate come “verità” (ma il discorso sulla “verità” l’ho fatto anche lì, in maniera succinta). C’è chi le ha prese come tali ed è partito per la tangente del fanatismo arberisco (Dio ce ne liberi); c’è chi le ha considerate interessanti, probabilmente proprio perché le ha prese anche lui per “vere”, confortando le sue ipotesi: la penso come te; c’è, poi, chi le ha prese per un fatto personale e mette muso, fa il permaloso.
Non intendevo suscitare simili reazioni.
Ho espresso, ripeto, delle semplici opinioni basandomi solo su quei brevi, frammentari, documenti che pubblica G. G. Capparelli nel suo “Acquaformosa” e ragionando (se mai io sappia ragionare) su questi ho cercato di trarre delle conclusioni – che in quel libro non erano tratte - tutte da verificare (lo ripeto a chiare lettere nel testo, in effetti non ho conclusioni da offrire).
Nella speranza, al massimo, di suscitare un dibattito.
A questo, però, noi arbëresh non siamo usi ed è grave per chi voglia fare cultura, perché di questo sono certo: si parla tanto della “salvaguardia” della cultura arberisca, che io in verità (ora ci vuole) non so in che consista, perché se la “cultura” è quella “divina erranza” della ricerca della “Verità”, quale che essa sia, allora quella “divina erranza” che deve essere un diuturno dialogare tra gli aventi diritto, in Arberia non esiste: c’è tanto folklore, cultura no. Cultura è un participio futuro, che parla di un farsi continuo, di un darsi di volta in volta, non di un passato reso idolo ingessato e contemplato nella sua incapacità di generare semi di futuro, appunto.
Ma se dialogo in Arberia non c’è, non è colpa mia. Non che il dialogo poi sia migliore dello scritto; il dialogo spesso è tra sordi ognuno reso sordo dalle proprie presupposizioni, dall’assunzione di principi non verificati, e dal proprio metodo di discutere (vedete i Talkshow politici in televisione).
Riesco a dialogare solo con Zef Skirò di Maggio, con cui siamo spesso in dissenso (proprio perché nessuno cede sulle proprie assunzioni, sulle proprie credenze, sulle proprie “verità”) ma continuiamo, nonostante tutto, a tenere sempre acceso Skype. Forse immaginiamo che la cultura si faccia così, nel di/battito continuo in cui ciascuno di/scute, scuote, sbatte come un tappeto per liberarlo dalla polvere che vi si accumula, polvere delle opinioni s’intende, le proprie tesi, in parresia, divenendo ognuno battitappeto dell’altro, sperando di imparare così qualcosa: io, per esempio, a scrivere. E, per dire, oggi abbiamo discusso di queste iniziative estemporanee che riguardano l’ennesima richiesta d’intervento delle autorità per la “difesa delle minoranze linguistiche”. Mi giunge notizia che, dopo aver ottenuto dal governo italiano, la legge 482 del 1999 per la difesa delle minoranze, coloro che hanno lasciato le nostre comunità analfabete come erano, perché guardavano e guardano altrove, si rivolgeranno ai cittadini Europei per una “Iniziativa di sensibilizzazione sui diritti delle minoranze linguistiche in Europa”.
Ci troviamo d’accordo, il Pianoto ed io, sul fatto che non firmiamo, che non ci mettiamo nel novero di coloro che s’infiammano per iniziative inutili. Che non è questo il modo di difendere alcunché in questo campo che è un innermost flowering della fysis, non un’imposizione eterodiretta da chicchessia. Desinit in mimum, dicevano i latini; a tarallucci e vino diciamo noi due d’accordo, augurando ai volenterosi a tempo perso buon appetito (anche perché è ora di cena, nel vespero delle nostre comunità).
Mi capitava altrettanto con l’amico che non c’è più, il Preside del “Giulio Cesare” di Roma, Antonio Sassone, l’uno eco dell’altro nel rimandarci “ ma je një piçuç i tërë, çë kararin thua?”/”ma sei proprio sciocco, che cazzate racconti?” non avevamo nessun ritegno a maltrattarci. E pure eravamo sempre lì a cercarci ogni giorno. Per telefono, allora. E ogni volta che c’incontravamo a Roma, era festa.
Ma c’era invece la buonanima di G. Rennis che si offendeva e non mi rivolgeva più la parola e cambiava strada quando m’incontrava, ogni volta che cercavo di discutere le sue madornalità linguistiche (beh, non tutti avevano fatto studi specifici in Linguistica generale – io allora ero uno specializzando, potevo fare il saputo).
E tuttavia pur di conservare gli amici sono sempre pronto a troncare tutte le mie pretese e buttarle tra i rifiuti (bisogna svuotarsi, no? κένος γίγνεσθαι/ mbrazem), anche perché non meritano. Ho imparato a tacere, a lasciare la parola all’altro, che è sicuro d’essere sicuro delle proprie tesi. Io sono spesso sicuro solo di essere insicuro, anche se, nello stesso tempo, essendo io un depresso cronico cui il peccato sta sempre davanti, sono tormentato dal fatto di non essere sicuro di essere insicuro (sto parafrasando Eco che parafrasa Boscoe Pertwee, che non sono sicuro di sapere chi sia).
È vero, scripta manent ponendo la sicurezza di un’opinione trincerata da un ragionamento non fallace, che non è strumento aletetico, ma solo di certezze personali.
Ma, amici, prendete le mie cose come prendereste quelle di uno scapato, di uno senza giudizio. Di uno che non sa scrivere, perché è un conto pensarle le cose un altro scriverle, spesso la scrittura tradisce il pensiero. E portate pazienza. Anche perché non faccio mai questioni personali – ci mancherebbe – posso sempre fingere, per carità ermeneutica, d’essere convinto delle tesi altrui: non mi costa niente. E scusatemi se talvolta mi esprimo sopra le righe; ma per amore solo per amore. Per amore del destino (amor fati) che mi è toccato: di essere un arbëresh, cui vorrei dare un senso (Ahi, la verità).
Le castagne dal fuoco me le sono tolte da solo, nell’indifferenza totale, degli altri. È vero che le mie sono iniziative personali, parziali, stravaganti – Zef Skirò mi rimprovera: sei l’unico che fa problema di queste cose. Ha ragione, ma ciò significherà qualcosa? E già, sono schiavo della Verità direbbe Antonio Sassone. Per amore della “verità”. Perché le vecchie verità sull’Arberia non servono più, sono decadute, han ceduto il posto ad altro: il boccio cede al fiore, il fiore al frutto, ricordate il vecchio Hegel?
Le “verità” sulla vecchia Arberia han fatto il loro tempo, bisogna farsi vuoti per le nuove, che faranno la muffa anch’esse. Ché ciò che la “verità”, che ama farsi inseguire, rilascia, i suoi φαινόμενα, è solo opinione, per questo “magis amicus amicus”. Se credessi di avere alcuna verità, a quest’ora avrei preso a calci nel sedere i tanti amici.
Ma giacché quello che scrivo ha tutta l’aria di voler essere verità, letto e riletto più volte questo testo (πολλάκις ἀναγνοὺς - non ti fermare mai alla prima osteria), caro lettore, buttalo via, o come direbbe (lo pseudo) Platone (Lettera II, 314c): καὶ τὴν ἐπιστολὴν ταύτην νῦν πρώτον πολλάκις ἀναγνοὺς κατάκαυσον.
P. S:
E pure siamo nel cuore della “Verità”, perché siamo nel cuore dell’Essere di cui essa è la luce. Essa si dà attraverso il nostro “errare”, attraverso l’”errare” suo e nostro; essa si storicizza, s’incarna in noi, avendo essa bisogno di noi per darsi, ma dandosi in noi, si “sporca”, diventa parziale, prospettica, relativa a tempo e luogo. Nel darsi entro i limiti nei quali siamo situati, la “Verità” si nasconde, nello svelarsi si ri/vela; essendo “il più vicino” essa è “il più lontano”; essendo “il più presente” essa è “il più nascosto” – la vista non vede se stessa; ed entriamo così nell “nostagia del presente.
Siamo nel cuore forse solo della “verità facile” (ῥᾳδία ἀληθείας) di Aristotele ( περὶ τῆς ἀληθείας θεωρία τῇ μὲν χαλεπὴ τῇ δὲ ῥᾳδία), dove ci cogliamo come “semplice presenza” alla stregua di un qualsiasi ente, un albero, una mosca, un motorino, che ci nasconde offesi a noi stessi;sapessi ἀληθινῶς chi sono! Chi sono? In che consisto?
Mi vengono in mente quelle parole di Matteo 24, 26 - 28, ἰδοὺ ἐν τῇ ἐρήμῳ ἐστίν, μὴ ἐξέλθητε. Ιδοὺ ἐν τοῖς ταμείοις μὴ πιστεύσητε (....) ὅπου γὰρ ἐὰν τὸ πτόμα, ἐκεῖ συναχθήσονται οἱ ἀετοί/ ecce in deserto est, nolite exire. Ecce in penetralibus, nolite credere (…) ubique fuerit corpus, illic congregantur et aquilae. Sì proprio così, dove ci sono i cascami della verità, lì si adunano gli avvoltoi. Ma chi vive, οὐκ ἔστιν ὧδε, non abita mai un “qui”; chi vive non ha dove posare il capo … A maggior ragione la raccomandazione di Platone va eseguita.
(1) Nell’”À Rebours” Huysmans condanna la pedanteria e l’aridità di Virgilio nell’Eneide per la “basse révérence à la grammaire”.